“La juta dei femminielli” e la festa di “Mamma Schiavona”
Articolo di Massimo Battaglio
Anche quest’anno, come da secoli, anzi millenni, domenica 2 febbraio al santuario di Montevergine in provincia di Avellino, si è celebrata la “juta dei femminielli”. Migliaia di persone trans ma anche gay, lesbiche, bisessuali che vivono intorno al Vesuvio, sono salite al monte Partenio per venerare “Mamma Schiavona”. Tra antichissimi canti popolari con nacchere e tammorre, hanno ringraziato quella che chiamano orgogliosamente “la nostra madonna”.
La “juta” è sicuramente il più antico rito religioso che, in ambito cristiano, vede come protagonista il popolo lgbt. Scoprirne le origini è quasi un mistero che affascina storici e antropologi.
Secondo una leggenda medioevale, fu il poeta Virgilio a scoprire che, sin dalla notte dei tempi, a Montevergine si venerava la dea Cibele, Grande Madre della natura e dei luoghi selvatici. Sul finire dell’inverno, le si offrivano candele, la cui fiammella rappresentava i primi germogli che spuntavano dal gelo grazie ai raggi della luce primaverile.
A celebrare questa offerta erano sacerdoti eunuchi, vestiti di sgargianti abiti femminili. Contemporanamente, si presentavano alla dea i neonati, gemogli viventi da porre sotto la sua protezione.
Molti elementi di questa festa ricorrono anche in altre religioni. Per esempio, ricordano il rito ebraico della presentazione dei bambini al tempio, che si svolgeva quaranta giorni dopo la loro nascita. Rito che, ancora oggi, si ricorda nella festa della Presentazione di Gesù che si celebrata appunto il 2 febbraio, quaranta giorni dopo Natale, e prevede anche la benedizione delle candele.
Ecco perché, sui monti di Avellino come in tanti luoghi analoghi, la “Candelora” ha assunto tanta importanza. Forse era ancora viva la memoria della tradizione religiosa precedente.
Il mito dei sacerdoti “femminielli” ha portato al formarsi di un’ulterione leggenda tenerissima. Si narra che, nel 1256, una coppia di ragazzi – maschi – fossero stati “sgamati” nella loro intimità. La popolazione furiosa li portò sul monte. Li legarono a un albero e li coprirono di neve. “Mamma Schiavona”, non potendo sopportare che fosse il loro amore fosse punito, mandò su di loro un raggio di luce. Così la neve si sciolse e i due furono salvi.
Al di là del suggestivo racconto, è bello notare come ricorrono i temi della luce che scioglie la neve e del germoglio di vita rappresentato dai due amanti. Ma soprattutto, è straordinaria questa idea di una madonna che soccorre qualunque amore, a prescindere da questioni di orientamento sessuale e identità di genere.
La juta dei femminielli ha permesso per secoli alle persone lgbt di esprimere collettivamente la loro spiritualità, particolare e profonda. Quando si chiede ai presenti cosa li spinge lì, rispondono: “a devuzione”. Qualcosa che non è propriamente religione ufficiale ma nemmeno semplice “devozione” come si intende comunemente.
Domenica scorsa, a Montevergine sono passate più di diecimila persone. La festa è stata accompagnata da diversi eventi culturali e aggregativi nei giorni precedenti. Si conferma come un fenomeno in costante crescita, in totale controtendenza rispetto a qualunque manifestazione religiosa. Un fenomeno veramente singolare, da osservare con interesse.
Alla juta incontriamo una “famiglia” straordinaria (una “paranza”, si dice in napoletano) accompagnata ormai molte personalità. Quest’anno, finalmente, anche l’abate Riccardo Luca Guariglia ha partecipato attivamente ai festeggiamenti. I suoi predecessori li avevano spesso snobbati se non contrastati.
Un reporter d’eccezione si è aggirato tra le danze: Diego Bianchi, più conosciuto come Zoro. Autore del blog “Tolleranza Zoro”, conduce la trasmissione televisiva Propaganda Live.
Daniela Lourdes Falanga, presidente di Arcigay Napoli, parla così della juta: “Qui si incontra il sacro e il profano. Tutta la popolazione lgbt viene a dire che è parte del mondo”.
Toccante la testimonianza di Vladimir Luxuria, che partecipa da anni. “Penso che, più che essere stata io a dare una svolta a questo pellegrinaggio, è stata Mamma Schiavona a dare una svolta a me. L’ho conosciuta in un periodo in cui non andavo più in chiesa. Qualcuno mi voleva far credere che quelle come me dovevano essere escluse dalla Chiesa. Incontrare gli occhi buoni, misericordiosi, accoglienti di Mamma Schiavona mi ha fatto capire che c’è un posto nel suo cuore anche per noi. E forse, addirittura, soprattutto per noi. Nessuno più deve pensare che la sua identità sessuale sia incompatibile col suo diritto alla fede”.