La lotta quotidiana di Kasha Nabagesera contro la discriminazione delle persone LGBT in Uganda
Articolo di Bianca Britton pubblicato sul sito dell’emittente CNN (Stati Uniti) il 7 marzo 2017, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
In Uganda, dove gli atti omosessuali sono punibili con il carcere, essere apertamente omosessuali richiede un enorme coraggio. Kasha Jacqueline Nabagesera non è solo estremamente aperta sulla sua sessualità, ma ha fatto della lotta per i diritti della comunità LGBT ugandese lo scopo della sua vita. E non è stato facile. Provate a chiamare questa trentaseienne al telefono e la vostra chiamata verrà filtrata da un sistema automatico: Kasha di solito risponde solo se conosce il numero. È la tattica necessaria per stornare le minacce e gli insulti quotidiani. È stata ripetutamente cacciata dai suoi padroni di casa perché i vicini non potevano perdonarle di essere lesbica e, per paura di venire aggredita, non utilizza i trasporti pubblici e non cammina per strada da sola. Ma, secondo Kasha, questo è un prezzo che vale la pena pagare per continuare la lotta contro l’omofobia in Uganda.
Crescere in Uganda
Quando aveva tredici anni, Kasha cominciò a scrivere lettere d’amore alle ragazze: “In quel momento la realtà fece irruzione e la parola ‘lesbica’ cominciò [ad avere] un senso per me”. Negli anni seguenti, Kasha subì molte sospensioni ed espulsioni da varie scuole, in quanto il suo orientamento sessuale diventava sempre più evidente. Quando poi cominciò a studiare contabilità all’Università Nkumba cominciò a sentirsi presa di mira più che mai: “L’amministrazione dell’università mi obbligò a firmare un documento che mi impegnava a vestirmi come una ‘vera’ donna e ogni giorno dovevo comparire a rapporto perché controllassero il mio abbigliamento”. Le venne proibito di indossare capellini da baseball e qualsiasi altro capo di vestiario considerato maschile. Ma le umiliazioni non finirono lì: “Non mi era [permesso] di stare a meno di cento metri dal dormitorio delle ragazze”. L’Università Nkumba non ha voluto rilasciare dichiarazioni.
Il sostegno della famiglia
Mentre continuava la lotta contro l’amministrazione dell’università, sua madre intervenne per evitare la sua espulsione: “Ricordo che mia madre mi disse ‘Kasha, dirò qualcosa che non ti piacerà, ma devo farlo’. Andammo nell’ufficio del rettore e disse ‘[Kasha] è malata e non c’è cura per la sua malattia, lasciatela finire gli studi e poi se ne andrà’”; Kasha era shockata, “ma dopo il colloquio mi disse che aveva dovuto farlo per salvare il mio percorso universitario, perché questa volta erano determinati a buttarmi fuori”.
Nonostante questo episodio, la sua famiglia (Kasha è cresciuta a Kampala, capitale dell’Uganda) le ha sempre offerto un sostegno incondizionato. Sua madre (una delle prime programmatrici informatiche del Paese) e suo padre (economista alla Banca dell’Uganda) hanno creato un ambiente casalingo molto liberale: “Non so se sarei in grado di fare quello che faccio se non fosse per la mia famiglia. Mi hanno sempre incoraggiata […] prendendomi sempre per quella che sono”.
Fondatrice del movimento LGBT ugandese
Questi furono gli avvenimenti determinanti che, all’età di 19 anni, la convinsero a fondare il movimento LGBT ugandese: “Cominciai a interessarmi [ai diritti delle persone omosessuali] e mi chiesi come mai molta gente ne parlasse”. Kasha fece alcune ricerche, e solo allora venne a sapere che essere omosessuale è illegale in Uganda. Decise che doveva fare qualcosa e cominciò a tenere delle riunioni con amici e amiche in un “nascondiglio” per discutere delle discriminazioni verso le persone LGBT: “Non pensavo di fare qualcosa di sbagliato, e non lo penso tutt’ora”.
Le leggi antiomosessualità ugandesi risalgono al periodo coloniale britannico (1894-1962); nel 1902 l’omosessualità venne ufficialmente vietata, e fino al 1930 la pena era l’ergastolo. È proibito avere rapporti sessuali con una persona dello stesso sesso, ma essere lesbica, in sé, non è un crimine. Nel 2007 una sentenza stabilì che “bisogna avere commesso un atto proibito dal Comma 145 per essere perseguito come criminale”.
L’omofobia furoreggia in Africa
L’omosessualità è illegale in 38 Paesi africani e, secondo Amnesty International, negli ultimi anni i diritti legali degli africani LGBT sono andati diminuendo. “Ho capito che [in Uganda] c’è carenza di informazioni ed educazione e molta ignoranza e ingenuità” dice Kasha, che nel 2003 è stata tra le fondatrici di Freedom and Roam Uganda (FARUG), un’associazione che si propone di difendere i diritti delle persone lesbiche, bisessuali e transgender ugandesi, la prima del suo genere nel Paese, fondata da un gruppo di lesbiche maltrattate e discriminate a causa della loro sessualità.
FARUG ha cominciato ad agire, senza nessuna autorizzazione esterna, per difendere le donne emarginate attraverso incontri con politici, articoli sempre più positivi sulle questioni LBT comparsi sui media, laboratori e conferenze. Secondo il suo sito Web l’associazione, ancora oggi attiva, “riconosce la diversità, sfida il maschilismo, il patriarcato e quegli elementi culturali che mirano ad opprimere le donne”.
“Davo per scontata la mia sicurezza”
Il suo ruolo di primo piano nella lotta per i diritti LGBT in Uganda è non solo coraggioso, ma anche pericoloso. Una proposta di legge antiomosessualità (comunemente chiamata “legge-ammazza-il-gay”), avanzata al parlamento ugandese nel 2009, prevedeva la pena di morte per alcuni atti omosessuali; l’anno dopo, prima che la proposta fosse ritirata a seguito delle proteste di molte organizzazioni mondiali, un giornale locale, Rolling Stone Uganda, pubblicò i nomi e gli indirizzi dei “Cento omosessuali più in vista” del Paese, sotto la dicitura “Impiccateli”.
Anche Kasha era nella lista, assieme al suo amico attivista David Kato. Molte delle persone coinvolte persero il lavoro e l’alloggio. Kasha e David fecero causa al giornale per violazione della privacy e vinsero, ma questo caso controverso rinfocolò l’omofobia nel Paese: sei mesi dopo, David Kato venne trovato massacrato a martellate nella sua casa. Un ugadese ammise di averlo ucciso e fu condannato a trent’anni.
La morte di David Kato corrispose a un allerta di massa: “In precedenza la davo per scontata [la mia sicurezza], ma dopo che il mio amico venne assassinato soltanto perché era gay, mi risultò chiarissimo che poteva succedere anche a me”. È spaventoso non sapere cosa può succedere tra un momento: “È una vita strana e bizzarra quella che conduco. Oggi tutto è calmo, posso andare ovunque senza che mi accada nulla, il giorno [dopo] invece è l’inferno. Il lato positivo [di avere sempre saputo di essere omosessuale] è che il mio essere dichiarata ha avvicinato a me molte persone come me, fino a fondare un movimento. Il lato negativo sono gli insulti, il ridicolo, i maltrattamenti, le minacce”.
Miss Bombastic
Le minacce non fermano l’attivismo di Kasha. Nel dicembre 2014 decise di fare qualcosa per contrastare la “caccia alle streghe dei media” e fondò Kuchu Times, un’associazione che è una voce della comunità LGBT e pubblica discussioni, storie e documentari. È una chance che Kasha si concede per contrastare i media tradizionali, che non fanno che “raccontare menzogne”, perché la comunità LGBT racconti le sue storie.
Nel 2015 ha creato Bombastic, la prima rivista LGBT ugandese, chiamata così in onore del suo soprannome. È una rivista gratuita che pubblica storie ed esperienze personali della comunità LGBT per creare consapevolezza e combattere la discriminazione. È una pubblicazione diversa da ogni altra: “Possiamo condividere liberamente le nostre storie e agire senza preconcetti”. La redazione distribuisce la rivista in tutto il Paese e ne lascia le copie di fronte alle case e sui parabrezza delle auto: è un tentativo di educare più persone possibile sulle tematiche LGBT: “Sto vedendo dei cambiamenti nella comunità [e] la gente ora capisce che non è sola. Nessuno potrà mai più dire che non esistiamo”.
Per il suo lungo attivismo, Kasha ha ricevuto numerosi riconoscimenti: nel 2011 il Premio Martin Ennals per la Difesa dei Diritti Umani, nel 2013 il Premio Internazionale per i Diritti Umani di Norimberga e nel 2015 il Premio Giusto Sostentamento.
“È un grosso sacrificio”
Se Kasha volesse una vita sicura e pacifica, con una maggiore libertà sessuale, la cosa più facile da fare sarebbe lasciare l’Uganda, ma abbandonare la sua patria è fuori discussione, anche se molti attivisti degli anni ‘90 l’hanno fatto: “È un grosso sacrificio, ma non c’è in realtà nessun luogo in cui voglia vivere e che posso chiamare casa se non l’Uganda. Io ho fondato questo movimento [… perciò] se me ne andassi, abbandonerei la comunità. Quando sanno che sei qui, che sei vicino a loro, ecco che in qualche modo si sentono sicuri […] sentono la solidarietà”.
E poi il cambiamento è lento, ma sta avvenendo: “So che le mie figlie e le mie nipoti non dovranno affrontare quello che ho passato io. Stiamo assistendo a un cambiamento di mentalità e c’è di che festeggiare”. Kasha ha visto aumentare il numero di attivisti LGBT, in particolare tra i più giovani, ed è fiera di avere visto aprire il primo ambulatorio LGBT di Kampala, un luogo in cui si può entrare liberamente per chiedere assistenza medica, senza timore del ridicolo: “Questo non vuol certo dire che tutto è a posto, ma perlomeno c’è un’enorme differenza rispetto a quando abbiamo iniziato”.
Testo originale: Kasha Nabagesera: The face of Uganda’s LGBT movement