La memoria dimenticata. Con l’olocausto ci fu anche l’«omocausto»
Articolo di Renzo Fracalossi pubblicato sul giornale “Trentino” il 25 gennaio 2020
Spesso nel dibattito sociale, storico e culturale attorno al dramma dell’Olocausto, appare preponderante la narrazione tragica dell’incredibile sterminio del popolo ebraico, mentre altri gruppi sociali, perseguitati dai nazifascisti, paiono talvolta rimanere quasi appannati sullo sfondo della storia. Certamente si tratta di numeri e di accanimenti differenti, ma sembra necessario, in questo tempo, fare un po’ di luce anche su altri perseguitati dall’odio e dalla discriminazione.
Shoah è una parola dell’ebraico e significa letteralmente: desolazione, catastrofe, disastro. Tale termine viene adottato probabilmente dalla comunità ebraica residente in Palestina nel 1938, con riferimento agli avvenimenti succedutisi fra il 9 ed il 10 novembre di quell’anno in Germania e passati alla storia come “Kristallnacht”. Da allora in poi il vocabolo definisce nella sua interezza il genocidio della etnia ebraica dell’Europa ad opera del nazifascismo.
Olocausto è invece un vocabolo nato dalla fusione di due fonèmi dell’antica lingua greca: “hòlos” che significa “completo – totale” e “kaustòs” che si traduce con “rogo” e quindi identifica un sacrificio nel quale ciò che si sacrifica viene completamente bruciato.
Alla voce “Olocausto” si è così attribuito, nel XX secolo, il significato di eliminazione fisica, da parte del nazifascismo, di tutti i “soggetti indesiderabili” – i cosidetti “Untermenschen” – e cioè oppositori politici, omosessuali, Testimoni di Geova, malati psichici e portatori d’handicap fisico, zingari Rom e Sinti e gruppi di Pentecostali, ricomprendendo così l’intera gamma, ebrei inclusi, dei prigionieri dell’universo concentrazionario nazista, scomparsi nelle più diverse forme e modi dentro l’oceano dello sterminio.
Si tratta di numeri terribili e tragici: fra i 5 ed i 7 milioni di ebrei; fra i 2 e i 3 milioni di prigionieri di guerra sovietici; quasi 2 milioni e mezzo di individui di varie etnie slave; circa 2 milioni di polacchi non ebrei; un milione e mezzo di oppositori politici; oltre 500.000 zingari; 300.000 portatori d’handicap; 200.000 massoni: circa 50.000 omosessuali dichiarati; 6.000 Testimoni di Geova e Pentecostali per un totale di circa 17 milioni di assassinati. Questo è l’Olocausto ed in esso rientra appunto l’Omocausto, cioè lo sterminio degli omosessuali.
Prima dell’avvento di Hitler, l’omosessualità in Germania non rappresenta un problema ed anzi Berlino è ricca di locali dedicati appunto al pubblico gay e, nell’epoca di Weimar anche il lesbismo trova un suo spazio riconosciuto. Sembra insomma il trionfo della tolleranza.
Già alla fine dell’Ottocento sono sorti alcuni movimenti di liberazione omosessuale, nonostante la vigenza del cosiddetto “Paragrafo 175” nella legislazione penale prussiana che punisce penalmente l’omosessualità.
Poi, con l’avvento di Hitler al potere tutto cambia. Oltre 100.000 omosessuali vengono arrestati e, mentre metà di essi è condannata a pene detentive in prigioni regolari, l’altra metà subisce l’internamento in campi di concentramento e l’apposizione del contrassegno rosa per gli uomini e nero per le donne da esibire sulla divisa da prigioniero.
Per il nazismo infatti l’omosessualità è incompatibile con la priorità del processo riproduttivo finalizzato alla conservazione della stirpe nordica ed all’esistenza del “Volk” (“Popolo”) e confligge inoltre con il mito ariano che si va costruendo e che si fonda su di una rigida eterosessualità.
Ciò nonostante più di una figura di spicco del nazismo – a partire da Ernest Röhm che è a capo delle prime milizie armate delle SA (le “Truppe d’assalto” del Partito) – è chiaramente omosessuale ed esibisce anche le proprie inclinazioni, nell’erronea convinzione di una sorta di “sopportazione” del Partito nei riguardi dell’omosessualità.
Purtroppo la realtà è ben diversa e lo dimostra proprio nelle faide interne al movimento nazista, culminate con i massacri della “Notte dei lunghi coltelli”.
Per Hitler, gli omosessuali sono “nemici dello Stato” e “corruttori” della moralità pubblica e quindi
vanno “emarginati dal tessuto sano della nazione” e convinti ad una “corretta sessualità” anche attraverso l’internamento, a scopo “curativo”, in alcuni campi di prigionia dove sono destinati ad un processo di progressivo annientamento fisico e psicologico. Per altri invece il destino è ancor più crudele.
Vengono forzatamente sterilizzati o sottoposti ad inaudite crudeltà o, ancora, utilizzati come cavie per esperimenti medici e così il loro tasso di mortalità nei campi di concentramento è secondo solo a quello degli ebrei.
Legalmente le donne invece non sono perseguite dal nazismo. Le leggi in vigore si occupano solo di omosessualità maschile, anche se in territorio austriaco le lesbiche vengono comunque incarcerate per il crimine di “fornicazione innaturale”, che rappresenta un pericolo per i valori dello Stato nazionalsocialista ed in quanto “asociali” sono rinchiuse in campi come Ravensbrück, Dachau e Flossenburg dove sono costrette ad esibirsi in alcuni bordelli, per compiacere le perversioni dei locali gerarchi SS.
Gli omosessuali sono quindi vittime innocenti e dimenticate dell’Olocausto, colpevoli solo di aver scelto forme diverse per dar corso ai propri sentimenti, nella consapevolezza che le loro sofferenze fisiche e psichiche sono forse imparagonabili per efferatezza e tragicità.
Raccontare anche questi aspetti dell’Olocausto forse può servire a ribadire una condanna senza se e senza ma, davanti al pericoloso risorgere dell’intolleranza e dell’odio su basi etniche, religiose, politiche e di orientamento sessuale che sembra ammorbare il presente dell’Europa intera.