La Metropolitan Community Church, una chiesa per i gay
Intervista a Robin Gorsline di Claudia Angeletti tratta dagli atti del V° Convegno REFO su “Teologia e sessualità”, Casa Cares, 11-13 Aprile 2003
La Metropolitan Community Church è una chiesa sorta per portare il messaggio d’amore e d’accoglienza di Gesù sopratutto all’umanità gay, lesbo, bisex, trans, discriminata e marginalizzata dalla società e dalle altre chiese.
Il pastore Robin Gorsline ci parla della sua esperienza di pastore omosessuale in una chiesa nata come spazio privilegiato di accoglienza per gli omosessuali, dove non vi sono discriminazioni, ma che vuol essere uno spazio accogliente dove poter pregare.
Domenica, durante il pranzo, ho colto l’occasione di trovarmi seduta a tavola accanto al pastore Robin Gorsline per rivolgergli alcune domande sulla sua esperienza di pastore omosessuale in una chiesa nata come spazio privilegiato di accoglienza per gli omosessuali.
D. Come hai iniziato il tuo ministero pastorale?
R: Prima di ricevere la vocazione al pastorato, ero un uomo politico, lavoravo come assessore nell’amministrazione della mia città ed ero impegnato dal punto di vista sociale a favore delle persone disagiate.
Ad un certo momento, mi sono reso conto che in questa mia attività mancava qualcosa, cioè che non potevo dare agli altri messaggio tanto fortificante quanto avrei voluto; perciò sono entrato in seminario, alla facoltà di Cambridge nel Massachussetts.
E’ stato proprio lì che l’incontro con altri uomini gay e donne lesbiche mi ha fatto render conto di avere questo orientamento sessuale. Il mio “coming out” (aperta dichiarazione di omosessualità) costituì un motivo di scontro con la mia Chiesa che non fu d’accordo sulla mia decisione di rimanere in seminario.
Invece, i miei professori mi consigliarono di proseguire gli studi anche dopo la laurea e così conseguii il Ph.D. (dottorato) in Teologia, ma lasciai la chiesa.
Molte persone mi consigliarono allora di entrare nella Metropolitan Community Church, ma io non volevo. Ero adirato con Dio, perché mi sentivo rifiutato dalla mia chiesa; fu poi il mio partner ebreo, cinque anni fa, a convincermi a frequentare la Metropolitan Community Church., dove non solo fui accolto, ma dove Dio mi indicò la strada per poter svolgere il ministero per il quale avevo studiato e mi ero preparato.
D: Ascoltando questa tua storia, mi viene in mente la definizione dell’omosessualità come “destino” proposta da Christian Demur (C. Demur-Denis Muller L’omosessualità un dialogo teologico, Claudiana,1995, pp. 46-48), per sottolineare la “non scelta” del proprio orientamento psico-affettivo. Ritieni valida questa definizione dell’omosessualità?
R: Sì, credo proprio che sia così per molti/e omosessuali, tra cui io, ma penso anche che per altri sia una buona scelta.
D: C’è molto dibattito su questo nelle nostre chiese, perché se l’omosessualità è una scelta e non una condizione naturale è perlopiù considerata come un vizio, perciò come un peccato. Che ne pensi?
R: Sono convinto che l’omosessualità è l’una e altra cosa, ma credo che nella scelta di vivere secondo l’inclinazione del mio desiderio naturale non vi sia peccato, dato il fatto che è difficilissimo definire la natura di ciascuno, ma anche il concetto stesso di ‘natura’.
Il genere di appartenenza (maschio o femmina) non è affatto così schematico come vorrebbero coloro che ragionano per stereotipi, ma è molto più fluido e diversificato da persona a persona. Ognuno di noi è per natura allo stesso tempo “maschio e femmina”, come dice la Genesi, mentre è poi la storia di ciascuno (dal rapporto con i genitori, ai libri che legge, ai film che vede, le persone che incontra) ad orientare la sua scelta di vivere come eterosessuale, come gay o lesbica.
D: Hai parlato nella tua relazione della tua amicizia con una leader dei transgender, una condizione sessuale che mi sembra subire più drammaticamente degli omosessuali la mancanza di un’identità sessuale (oltre che la riprovazione sociale e religiosa): com’è possibile accettarsi per loro?
R: Bisogna smetterla di pensare che siano malati, anche la loro è una condizione naturale: come esistono in natura gli ermafroditi (persone dotate degli organi riproduttori di entrambi i sessi), esistono anche persone in cui, in modo analogo (però più complesso), convivono i due sessi, uno a livello biologico, l’altro a livello psicologico e che cercano di modificare anche le loro caratteristiche anatomiche e fisiologiche per assumere le sembianze fisiche del sesso cui si sentono di appartenere. Il problema dell’accettazione non è loro, ma della società, delle istituzioni, incapaci di recepire la peculiare identità di ciascuno/a che si ponga al di là del frusto concetto di norma.
D: La Metropolitan Community Church è sorta proprio per portare il messaggio d’amore e d’accoglienza di Gesù all’umanità GLBT (gay, lesbo, bisex, trans) discriminata e marginalizzata dalla società e dalle altre chiese. Come svolgi il tuo ministero pastorale con queste persone?
R: Non c’è differenza dalle altre chiese, il lavoro che svolgo è quello di cura delle persone tipico di qualunque pastore. Magari, chi arriva nella nostra chiesa ha molti problemi e deve essere curato per le molte ferite spirituali che ha ricevuto, perciò il mio è un lavoro teso alla guarigione spirituale che si avvale del counselling.
Poi, la nostra chiesa funziona da rifugio per molti ragazzi gay minorenni, che arrivano da ogni dove, perché non sono accettati né dalle loro famiglie (che quasi sempre cercano di eliminare il problema di un figlio “diverso” allontanandolo o scacciandolo), né da nessun’altra parte, perché non hanno soldi.
Allora come chiesa cerchiamo di toglierli dalla strada, offrendo loro un posto dove stare, dove sentirsi protetti, specialmente di notte. Poi, cerchiamo di trovare una scuola dove iscriverli per farli continuare a studiare, aiutandoli con la burocrazia, con i moduli da compilare, con i problemi di inserimento etc.
D: Ed i loro familiari? Come si rapportano con questo tipo di chiesa?
R: Pochissime famiglie entrano in contatto con noi o manifestano il desiderio di ripristinare una relazione d’affetto con i loro figli; in quei rarissimi casi, come pastore, tento un’opera di riconciliazione, ma solo se il ragazzo (o, caso più inusitato, la famiglia) ne esprime apertamente la volontà.
D: La Metropolitan Community Church non rischia di diventare un altro ghetto in cui “i diversi” possono sentirsi protetti, ma che non è veramente integrato con il resto della società?
R: La nostra chiesa vuole essere tutto meno che un ghetto, infatti ne può esser membro chiunque lo desideri; anzi, vi sono credenti che frequentano altre chiese aperte, ma ogni tanto amano partecipare ai nostri culti per “sentirsi in famiglia”, per ascoltare sermoni in cui gli esempi possono anche essere tratti da situazioni tipiche della condizione dei GLBT.
Non vi sono barriere di alcun tipo, tanto che vengono anche ebrei ed islamici gay, sapendo di poter usufruire di uno spazio accogliente dove poter pregare.