La mia esperienza di studente gay invisibile in una scuola cattolica
Testo di Jerry Furlong tratto da “Let’s Talk About Homosexuality – Putting a Human Face on Homosexuality“, parte 3, edito da Fortunate Families USA (Genitori cattolici con figli LGBT), liberamente tradotto da Silvia Lanzi
“Vi sfido – individualmente e come comunità – ad ascoltare le storie di persone… gay e lesbiche. Perché, forse più di ogni altro argomento di cui posso pensare, questo è un campo in cui chi non sa, parla – e chi sa, rimane in silenzio” (Paul Giurlanda) [1]
Nel 1989, un gruppo di ministri di culto cattolici, laici e consacrati gay, hanno indirizzato una “Lettera su Fede e Omosessualità” alla loro comunità. “L’omosessualità” scrivono “è intorno a noi, nelle persone reali che vivono, uomini e donne, con i loro volti, i loro nomi e le loro storie di gioia e di dolore”. Ascoltiamoli.
William Glenn è uno dei diplomati del 1966 del liceo Creighton Prep di Omaha (USA). Ex gesuita, oggi lavora come psicoterapeuta, direttore spirituale e coordinatore del Gruppo dello Spirito, una comunità di preghiera interconfessionale dell’area di San Francisco. La sua storia è stata pubblicata sul numero di “America” del 21 maggio 2001.
La storia di William Glenn
Diversi anni fa, mentre ero seduto alla mia scrivania al Continuum, una comunità per malati di AIDS di San Francisco, della quale ero direttore esecutivo, squillò il telefono. Chi chiamava si identificò come segretario della First Lady e mi chiese se avessi voluto andare alla Casa Bianca per una riunione di dirigenti di comunità il mese seguente. Dopo una reazione inizialmente spaventata, ho risposto: “Si, certamente!”. Come potete pensare ero onorato, mi sentivo privilegiato, lo vedevo come un obbligo ed ero molto eccitato.
Andiamo avanti a parecchie settimane fa. Il mio amico Robert Hotz, S.J., l'[allora] preside del Creighton Prep, il liceo gesuita che ho frequentato ad Omaha nel Nebraska, e dove insegna mio fratello minore Greg, una mattina mi chiamò. Padre Hotz mi chiese se volevo tornare al liceo Prep per parlare della mia esperienza di studente gay e per dare suggerimenti su cosa la scuola potesse fare per aiutare i suoi studenti LGBT. Di nuovo mi sono sentito privilegiato; ero onorato; capivo che ero obbligato a farlo. Ma questa volta non ero solo eccitato. La mano che teneva il telefono stava tremando!
Non tornavo alla Prep da trentacinque anni. Ero stato nella sua palestra per la messa di mezzanotte, ed ero andato al campo sportivo per vedere mio fratello John e mio nipote Brian giocare a football, ma non avevo mai più messo piede nella scuola dal mio diploma nel 1966. Ma parecchie settimane dopo, eccomi lì.
Pensando a cosa dire agli insegnanti, capii che volevo dire quella cosa perfetta che avrebbe cambiato per sempre il modo in cui venivano trattati gli studenti gay. Ma certamente non c’è una cosa perfetta da dire e io sono un essere umano imperfetto. Così ho deciso invece di raccontare chi ero, un po’ della mia esperienza, un po’ delle cose che avevo imparato e come credevo fosse possibile mettersi a disposizione al meglio per gli studenti – specialmente quelli gay – del Prep. Dopo il diploma del 1966, ho passato quattro anni alla casa madre, la Creighton University. Nel 1970 mi sono unito ai gesuiti e ho passato i dieci anni seguenti in una varietà di incarichi, molto soddisfacenti, come insegnante in un altro liceo gesuita.
Sono stato anche un gesuita alcolista. Sono tornato sobrio nel 1978 e per una moltitudine di ragioni – ma non perché non ho dato grande importanza al modo di pensare di Ignazio – l’hanno seguente ho deciso di lasciare i gesuiti. Ho fatto poi il preside in una scuola elementare per bambini neri e vicepreside per un grande liceo femminile multiculturale cattolico a San Francisco.
Negli scorsi diciassette anni, sono stato psicoterapeuta, lavorando in proprio, in centri di trattamento ospedalieri per abuso di sostanze e, in particolare, per quanto riguarda le problematiche relative all’AIDS. Dal 1993 al 1999, ho diretto una struttura per l’assistenza delle persone con HIV nel difficile distretto di Tenderloin, a San Francisco (USA).
Due anni fa, rispondendo ad una chiamata che ho sentito per la prima volta prima di entrare al liceo nel 1962, ho lasciato il mio lavoro nel campo delle malattie e mi sono concentrato sul mio percorso interiore. Ho fatto un pellegrinaggio in Irlanda dove, in un piccolo cottege su un’isola della contea di Mayo, ho passato trenta giorni in silenzio, pregando gli esercizi spirituali di sant’Ignazio, dicendo ancora sì a Quello che ci chiama in maniera così irresistibile. Oggi passo il tempo con quelli che la società ha scartato.
Ma torniamo al Prep. Mentre stavo preparando i miei appunti per la conferenza del pomeriggio, ho capito che non ero il cinquantaduenne che sembrava fossi. Invece ero ancora la matricola del 7963, un sedicenne gay riportato indietro nel tempo. Ho rivissuto la mia vecchia vita, con i sentimenti e i ricordi che mi echeggiavano dentro e ancora mi tromentavano.
Sebbene fossi diventato un maschiaccio abbastanza convincente, ero una mammoletta, e il Prep non era posto da mammolette. Dopo un primo anno difficile, pregai i miei genitori di mandarmi alla locale scuola statale.
La richiesta fu, per mio padre, l’equivalente di un’eresia. Sapeva davvero poco di come mi sentivo, studente vergognoso e profondamente isolato, in quel rinomato liceo. Vivevo con la continua paura di essere messo alla berlina e nel terrore di essere scoperto come una cosa da disprezzare, di cui non sapevo neanche il nome, ma i cui effetti negativi potevo sentire e vedere intorno a me e, soprattutto, dentro di me.
Sicuramente non tutto andava per il verso sbagliato. Avevo alcuni insegnanti meravigliosi, sia gesuiti che laici (nei miei quattro anni non c’è mai stata una ragazza in classe). Mi aveva impressionato particolarmente il mio insegnante di inglese, che ci insegnò a scrivere esprimendo i nostri sentimenti e ci mostrò sempre rispetto e dignità. E, alla Prep, la mia fede si rinsaldò; incontrai Gesù in modo profondo e mi venne data un’infarinatura di saggezza ignaziana, quella combinazione incomparabile di comprensione e intuizione basate sulla spiritualità e sulla psicologia. Feci la mia prima incursione nel pensiero critico.
Ma la Prep era un luogo difficile in cui stare per un ragazzo gay. All’epoca la scuola supportava massicciamente i valori della cultura dominante, valori contrari allo sviluppo integrale della persona, valori particolarmente adatti a far diventare i ragazzi, giovani uomini compressi in se stessi e dalle vedute limitate.
Due incidenti possono esemplificare le mie parole. Alla partita di football della Prep prima delle vacanze durante il mio primo anno, ero seduto con un mio amico quando si avvicinarono due teppisti del mio corso. Uno disse all’altro: “È lui” e mi prese per il colletto e mi fece alzare in piedi sulle tribune. L’altro babbeo mi diede un pugno nello stomaco, mi fece sedere e se ne andò via ridendo sprezzante. Quei due comunicavano la consapevolezza che temevo: “Ti osserviamo con attenzione”. Per quattro anni ho vissuto ogni giorno con questa paura, credendo sempre che, in qualche modo me lo meritavo, per essere ‘quello’, ‘quello’ che osservavano.
Sebbene fossero teppisti, erano anche quella sorta di ‘celebrità minore’ che produce il liceo. Entrambi furono atleti sponsorizzati (il babbeo, l’ultimo anno, entrò anche nella All-State Football). Ma non di meno erano teppisti – teppisti che la cultura dominante incoraggiava senza saperlo. E lo fa ancora.
Durante il primo anno, come quasi tutti i ragazzi, mi innamorai, sebbene in modo diverso dai miei amici. Non mi innamorai di una ragazza di una delle scuole cattoliche locali. Mi innamorai invece di un ragazzo seduto una fila dietro di me. Mi sentivo travolgere. Ero allarmato, mi vergognavo e mi sentivo colpevole. Non c’era nessuno con cui potessi condividere questi sentimenti, anche solo per rendermi conto che esistevano. Ero all’inizio di quello che nei seguenti quindici anni sentii molto profondamente: ero solo. E pensavo che avrei dovuto essere solo per sempre, senza parole, senza una comunità, senza simboli o miti, senza dialogo e senza speranza.
Quello che ho imparato alla Prep sono i messaggi della cultura dominante. Durante l’ultimo attacco furioso della pubertà arrivai a credere di essere malvagio. E di più: ero malato, peccatore e inaccettabile agli occhi del mondo. Tutte le parole, le supposizioni e i giudizi della nostra cultura si fecero strada saldamente in me, un sedicenne che il mondo, per non parlare dei suoi genitori, non avrebbe potuto conoscere.
Ma infine, come prima cosa, avevo iniziato a pensare di essere inaccettabile agli occhi di Dio. Più pregavo per cambiare, che era quasi l’unico motivo delle mie preghiere (sapendo profondamente di non aver scelto di essere gay, ma credendo che lo fosse diventato a causa dei miei peccati) più vedevo il mio non cambiamento come il giudizio di Dio su di me. La mia vita e le mie preghiere non dovevano essere sincere. Non avevo accesso alla semplice grazia che tutti sembravano meritare.
Quello che chiamavo Dio e il mio amico Gesù, che era stato la fonte di un immenso conforto nella mia vita se ne erano andati – e mi avevano lasciato solo. Mi avevano abbandonato nella disperazione perché la persona che ero diventato non poteva cambiare, non poteva smettere di avere i sentimenti e i desideri che aveva, non importa quanto avessi lottato o pregato duramente per esserne liberato. Alla fine, ero disperatamente solo.
Questa è la paura più grande per i ragazzi e le ragazze omosessuali: di essere soli. Noi soffriamo senza il conforto di una madre o di un padre o degli amici, o anche senza la consolazione di essere parte dell’universo. Nessuno con cui condividere questa sorte terribile: crediamo a tutte le atroci immagini della nostra cultura, ritenendoci responsabili della nostra condizione così malata e perversa. Non c’è un simbolo che trasformi quest’esperienza, nessuna storia per contestualizzarla, nessuna persona a cui spiegarla e che ci aiuti a sopportarla.
In qualche modo penso: chi potrebbe augurare ciò al proprio nemico – per non parlare di un bambino o di un amico? Ma è quel che succede in questa cultura a ragazzi e ragazze omosessuali.
Da una parte ho fatto esperienza di una sorta di esistenza circolare di colpevolezza, vergogna ed espiazione. Dal di fuori mi “eterosessualizzavo” meglio che potevo, e mi sforzavo più che potevo di dare l’immagine del “bravo ragazzo”, di “uno di voi”, rendendomi conto ad un certo momento che non lo ero né potevo esserlo.
Infine scoprii l’immenso sollievo che dà l’alcool, con il quale finalmente riuscivo a mascherare e ad ottundere una pena ormai costante. Ho bevuto per dodici anni, fino ad un incidente quasi mortale nel giugno 1978. Anche dopo però, ho continuato ad ubriacarmi.
Ma la stessa estate, durante il Labor Day (festa americana del lavoro che si celebra il primo lunedì di settembre), mentre al mattino presto stavo andando in bicicletta sulle spiagge del lago Michigan, con i postumi di una tremenda sbornia, sentii queste parole: “non devi più bere”.
Sapevo che era finita.
Dopo poche settimane, tornato a Berkeley per studiare teologia come gesuita, andai ad una manifestazione per sconfiggere la Proposition 6 (che avrebbe proibito l’insegnamento a gay e lesbiche) nel ballottaggio della California, non diversamente da altre iniziative contro le persone gay, dissimulate sotto altro (come la sacralità del matrimonio) che sono apparse ovunque. L’iniziativa avrebbe comportato il licenziamento di ogni insegnante californiano che si fosse scoperto essere gay. Quel pomeriggio, andai a San Francisco nei miei abiti religiosi, non volendo che nessuno pensasse che ero gay, sebbene sapessi di non essere niente di diverso. Harvey Milk, il relatore gay che sarebbe stato assassinato di lì a poco, fece quello che era il suo discorso standard. Gridò che non dovevamo più avere paura, perché eravamo insieme, vivi e liberi. Disse che eravamo lì per il ragazzino di Fresno e la ragazzina di Sacramento che quella sera credevano di essere da soli.
Mi commossi profondamente, proprio tanto. In poche parole Harvey Milk, aveva raccontato la mia storia. Calde lacrime mi scorrevano sulle guance. Tolsi la linguetta bianca dal colletto del mio abito talare e mi misi a piangere.
Quella sera andai a casa in metropolitana, entrai nella mia camera della comunita gesuita in cui abitavo, misi una pagina bianca nella Selectric e battei a macchina le parole: “Sono gay”. Avevo trent’anni.
Quel giorno feci voto con la convinzione che può avere solo un ex-alcolista di non avere paura e non mentire più ed essere me stesso a tutti i costi, non importa cosa o chi avrebbe potuto dire di no. Perché sapevo che la cultura dominante avrebbe detto ‘no’ ogni giorno. E, ogni, giorno, iniziai a pregare per la grazia di dire ‘sì’.
La mia storia è la versione della storia del “coming-out” di ogni di ogni ragazzo o ragazza omosessuale, e queste storie andranno avanti finché la cultura dominante, che soffre della sua stessa omofobia, ritirerà la sua enorme e accecante ombra sessuale.
L’omofobia, la figliastra della misoginia, esiste per una semplice ragione. La società proietta l’enormità della sua ombra sessuale inconscia – i suoi desideri, le sue paure e i suoi tabù – sulle persone omosessuali. Le stigmatizza, le rende capri espiatori, li etichetta come degenerati, fa delle leggi contro di loro, ne viola sia la dignità che l’umanità e richiede (come si fa con i capri espiatori) che le persone omosessuali ne sopportino il peso oppressivo. Se vi domandate come funzioni questo modello collettivo, date un’occhiata alla storia degli ebrei in occidente dal tempo di Paolo, o considerate il modo in cui il patriarcato considera l’umanità delle donne.
Dalla seconda media ai trent’anni, niente per me è stato peggio che essere gay. Ma grazie al cielo, adesso capisco che questa dimensione di me – che è biologica, psicologica e spirituale – la mia gaiezza è una grande fonte di grazia e di saggezza. Sono profonadmente riconoscente della grazia del mio particolare cammino e della profonda libertà che mi ha dato il guardare in faccia a questo dono. E ho avuto di nuovo accanto a me il mio esigente amico Gesù che, a dire la verità, non mi aveva mai lasciato.
La spinta travolgente del vangelo, il ministero di Gesù ai margini del riconosciuto, sono non solo un modello per me, ma sono diventati anche un segno esteriore, una grazia, un sacramento. Così la mia storia, si conclude in un circolo, per quanto distorto. Sono ancor oggi il quattordicenne venuto alla Prep per diventare un uomo.
Concludo il mio discorso al liceo Prep offrendo alcuni suggerimenti, premettendo quanto segue: che tutti i giovani gay e la maggior parte di quelli adulti credono di essere merce danneggiata e che, come corollario, si sentono (e sono) soli e isolati. Il preside della scuola mi ha chiesto di dire cosa avrei avuto bisogno di sentire nel liceo Prep del 1963 e cosa gli alunni gay della scuola hanno bisogno di sentire oggi. Credo che abbiano bisogno di sentire tre cose. Primo: Dio vi ha creato esattamente come voleva che foste. Secondo: non siete merce avariata, né malati, né cattivi. Terzo: voi e l’amore che date siete essenziali, grazie misteriose nel piano di Dio per il mondo.
Da ultimo, e forse più importante, chiedo ai dirigenti di accettare la mia gratitudine e la mia ammirazione per il modo così coraggioso in cui mi hanno accolto oggi, e per avermi invitato a raccontare la mia storia. Forse hanno guarito inconsapevolmente una vecchia ferita, e sono in debito con loro. Ho chiesto che Dio benedica il lavoro che fanno nel far diventare la scuola un luogo sacro per ogni studente che oggi varca le sue porte, ragazzi che hanno il compito di far diventare uomini per gli altri.
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1 Paul Giurlanda, America, 8 maggio 1993. 12-14. Giurlanda è professore associato di studi religiosi al St. Mary’s College of California.
Testo originale tratto da: Let’s Talk About Homosexuality – Putting a Human Face on Homosexuality (PDF)