La mia fuga nella vita religiosa. Il celibato per un gay cattolico non è l’unica opzione
Testimonianza di Patrick Gothman* pubblicata sul sito “Reaching Out – storie di fede LGBTQ persa e trovata” (USA) il 22 novembre 2017, libera traduzione di Innocenzo
Quando ero al liceo sono quasi arrivato a guidare la mia auto contromano. Era il tramonto, il flusso costante dei fanali accesi delle automobili mi sembrava un invito diretto a me a fare quel gesto (suicida), ma poi all’ultimo momento ho rinunciato . Sapevo che sarebbe stato un modo terribile di farla finita, probabilmente avrei distrutto un sacco di altre vite, solo perché non volevo continuare a vivere la mia. Ma avevo il desiderio di un po di sollievo da quanto mi odiavo come omosessuale, mi sentivo sempre giudicato come un pervertito incapace di amare perciò, in quel momento, avrei accolto con favore quell’incidente.
Quella notte non sono riuscito a portarlo a termine, ma per anni ho desiderato morire giovane piuttosto che lasciare che la mia solitudine continuasse, sapevo che non dovevo più lasciarmi andare sino al punto di sentirmi chiamare dai fari delle auto. Doveva esserci qualcosa di meglio che uccidermi. Anche se ciò significava lasciare il mio lavoro di insegnante per fare qualcosa di totalmente diverso. In superficie ero calmo, ma all’interno gli elastici della mia esistenza si stavamo allungando sino al limite. Presto, sentivo, si sarebbero spezzati.
Durante un semestre di studio all’estero ero stato a Roma, lì avevo conosciuto una comunità religiosa che aveva sede nel sud della Francia. Erano un nuovo ramo di un vecchio ordine, tra loro mi sentii subito sentito a casa. La gioia irradiava dalle loro ossa, anche quando pregavano per il loro cibo o viaggiavano in autostop. Erano come le vecchie storie dei santi con cui ero cresciuto da piccolo. Quando ho realizzato che nella mia vita ero solo, ho scritto all’ordine per chiedere se potevo unirmi a loro.
Per prepararmi all’entrata ho venduto tutti i miei beni ed ho salutato i miei amici, sapendo che probabilmente non li avrei mai più rivisti ed ho abbracciato la mia famiglia, senza sapere quando o dove gli avrei rincontrati in futuro. Erano una comunità della vecchia scuola, nel senso che entrando nell’ordine ti lasciavi alle spalle tutto e tutti. Avrei potuto inviare una sola lettera al mese per mantenere i contatti, durante il mio primo anno.
Situata ai piedi dei Pirenei, la casa madre della comunità era semplice e bella, con alloggi posti sui lati opposti per le donne e gli uomini che componevano l’ordine. Mi venne assegnata una stanza con una piccola scrivania, una sedia fatta a mano ed una cassapanca di legno che fungeva anche da letto. C’era una piccola icona ed un crocifisso sulle pareti bianche, altrimenti vuote. Seduto sul mio letto, alla fine della mia prima notte in Francia e c’era solo una frase sulle mie labbra: “Ma che cazzo ho fatto?”. Ho deciso di essere andato troppo lontano e avevo rinunciato a troppo per non essere onesto con la mia nuova comunità.
Così mi sono confidato con quasi tutti quelli che mi chiedevano di essere certo del cammino che avevo intrapreso. Era più che sentire la nostalgia di casa, sapevo nelle mie ossa che non ero fatto per essere un frate, eppure il consiglio che ho ricevuto da tutti è stato: “Datti un anno. Ci vuole tanto tempo per sapere cosa si vuole. Rilassati e lascia che le cose facciano il loro corso”.
Ma se c’era una cosa che vedevo chiaramente, ora che camminavo tra l’erba alta di quelle antiche colline, che mi ero allontanato dai problemi che mi dava l’essere gay. Cinquemila miglia ed un oceano di distanza, però non mi avevano fatto fuggire da chi ero, ma solo l’avevano amplificato.
I pasti in silenzio e le ore trascorse ogni giorno tranquillamente nel lavoro e nella preghiera, mi hanno aiutato a vedermi più chiaramente che mai. Ho visto i miei doni e le mie debolezze mentre risuonavano nella mia testa. Non avevo bisogno di un lago o di una sigaretta da fumare a tarda notte, sotto lo sguardo stoico diuna statua della madonna per vederle. I miei giorni e le mie notti erano diventate come un serbatoio di deprivazione dei sensi, a causa del mio continuo discernimento. E nel silenzio potevo sentire i sussulti della realtà ruggire.
Ci sono state molte volte in cui ho pensato che forse dovevo andare via. Oppure che avrei potuto nascondere le mie povere intenzioni per unirmi alla comunità,ma poi le mie inquietudini la notte cominciavano a fissarmi da ogni angolo della mia nuda cella. Mi chiedevo se “Dio aveva ancora un piano per me in questa comunità, nonostante tutto?”. Mi sedevo in silenzio sotto una delicata lampada di paraffina e osservavo l’umile vita dei miei fratelli e delle mie sorelle, mi rendevo conto che c’era qualcosa di innegabilmente bello lì.
In inverno costruimmo una piccola casa con un rimorchio per un gruppo di sorelle provenienti dalla vicina Tolosa, che erano statate invitate ad andare a vivere in un campo di zingari. I rom videro che anche le nostre sorelle mendicavano il cibo e le riconobbero come spiriti affini, come persone che vedevano il mondo dal loro punto di vista, perciò le accolsero nel loro accampamento alla periferia della città. Era uno dei gruppi umani più solitari e insultati in tutta Europa – visto dalla società come nient’altro che un gruppo di mendicanti stranieri e ladri – eppure la mia comunità aveva avuto l’umiltà di dire che sarebbe stato un onore condividere una casa con loro.
Come non vedere il vero cuore del Vangelo in tutto questo? Come fai a non innamorarti? Ma poi avevo dei momenti che mi ricordavano nel mio cuore, che non avrei mai pronunciato i voti che mi avrebbero reso uno di loro.
Finché la fondatrice della mia comunità raccontò, ad una manciata di noi, cosa accadde quando una famiglia, che viveva vicino alla nostra comunità, perse il figlio gay perchè si era suicidato. La famiglia chiese alla comunità se avrebbe celebrato il suo funerale. Per i miei fratelli e sorelle fu un momento importante, vegliarono tutta la notte in preghiera con il corpo.
Ma al termine del funerale, un’altra donna si avvicinò preoccupata alla fondatrice e le disse: “Sorella, non mi ero resa conto che la Chiesa cattolica ora approvasse l’omosessualità!“. La fondatrice le spiegò gentilmente che era solo un funerale, che in realtà non significava un grande cambiamento nell’insegnamento cattolico. Ma poi, riflettendo con noi che stavamo ascoltato quella storia, ci disse che se avesse saputo che quel funerale avrebbe causato tale scandalo e confusione, non avrebbe mai accettato che la sua comunità celebrasse quel funerale.
Ho capito il disorientamento di quella donna sulle conseguenza di quel funerale. Ma quella notte ho abbracciato le mie ginocchia e mi sono scagliato contro il muro della mia cella. Mi chiedevo che tipo di persona dovevo essere se la comunità, che amavo così tanto, era capace di costruire una casa nel fango nelle periferie sbrindellate di una città con i Rom, ma non avrebbero mai portato il mio corpo morto davanti a Dio nella loro chiesa, se i vicini avessero saputo che ero gay. Come potevo unire la mia vita a quella di una comunità che non mi avrebbe pianto il giorno della mia morte?
Dopo tre mesi chiesi un incontro con il capo dei miei fratelli e, in una piccola cappella, rannicchiato intorno al camino, parlai il mio miglior francese e lui il suo miglior inglese. Gli dissi che pensavo che fosse tempo per me di andarmene, che ero gay e mi ero reso conto che ero arrivato lì più per sfuggire a quella realtà, piuttosto che per abbracciarne un’altra. Ma, gli dissi, che non volevo andarmene senza la benedizione della comunità.
Non ne avevo abbastanza di quei vecchi usi cattolici che mi ricordavano che anche questa decisione non riguardava solo me. Il discernimento in un ordine religioso è una strada a doppio senso, con la comunità che sceglie l’individuo, tanto quanto lui sceglie la comunità. Con grande affetto negli occhi il mio superiore mi chiese tre giorni per pregare su questa mia richiesta e mi disse che mi avrebbe risposto una risposta. Quando ci siamo seduti di nuovo insieme, mi comunicò che era meglio se ne fossi andato. E dopo due giorni sono tornato a casa mia in Texas.
Può sembrare ragionevole chiedersi perché non volevo cercare un’altra comunità? Se volevo davvero seguire l’insegnamento della Chiesa se una realtà non mi andava bene, non significa che non ci fosse un’altra che fosse adatta a me? Tutto quello che posso dire è che è andata così e basta. Dopo dieci anni di sottomissione all’autorità della Chiesa ero sempre più vicino all’odio per me stesso e non riuscivo a vedere quale fosse il mio futuro. Così ho cominciato a vedere quei fari che mi chiamavano di nuovo.
* Patrick Gothman vive negli Stati Uniti, dove si occupa di giustizia sociale. E’ uno scrittore abbastanza gay ed è editor del sito Reaching Out.
Testo originale: I Thought Gay Celibacy Was My Only Option — I Was Wrong