Nel “cammin di nostra vita” di donna, lesbica e credente
Testimonianza di Lavinia Capogna
Tra pochi giorni compirò 50 anni e ho ampiamente superato il “mezzo del cammin di nostra vita” di Dante. Non voglio fare un bilancio, la vita è un flusso continuo e spesso i bilanci sono errati. Naturalmente è impossibile ignorare quanta parte ha avuto nella mia vita un orientamento sentimentale omosessuale. Esso si è mescolato a molti elementi, il mio temperamento, le mie scelte, i miei errori, gli eventi, le persone, il tempo storico. A dodici anni ho scoperto l’amore come sentimento, casto e inespresso, è stata una scoperta meravigliosa, incredibile, stupefacente.
Mai avevo pensato all’amore sentimentale e in quel 1975 mi travolse in pochi giorni. Ricordo una gioia assoluta, innocente. La vita mi rivelava un grande mistero. Solo qualche tempo dopo sentii con timore che quel sentimento sarebbe stato rigettato dal mondo.
Le mie amiche parlavano di un coetaneo di cui erano innamorate ma io non potevo parlare di lei. Era scritto su qualcosa di intangibile ma era evidente. A me spettava il silenzio, mai avrei potuto andare con lei per le vie cittadine come una mia compagna di scuola con il suo boyfriend. Lei non era la mia girlfriend.
In rapporto ad altre ragazze della mia generazione ho una fortuna: una mamma buona, sensibile, comprensiva. Ma ho anche parenti che dietro ad una presunta emancipazione celano una forte omofobia velata che emerge in tante cose e che mi causa dolore. E anch’io ho sofferto di omofobia velata, anch’io ho avvertito un clima di paura, silenzio, omertà, derisione tra i miei amici sul tema omosessualità. Naturalmente essendo tutti di estrema sinistra e io militante nel PCI era una cosa velata ma palpabile. Chi era lesbica si chiudeva nel silenzio. Si era uniche.
Fu proprio dalla musica pop e rock che venne qualcosa di nuovo. Elton John gay? Era una gran cosa vedere quel giovane inglese anticonformista.
Negli anni ’80 un’attrice, star fin dai tre anni, era chiamata a bassa voce “lesbica”, ma Jodie Foster era silenziosa come noi. Lentamente, molto lentamente incominciai a comprendere che non c’era niente di male o di morboso, di perverso, di malato, di vizioso, di anormale (tutti termini che molta gente usava allora verso gay e lesbiche) in quei sentimenti belli e delicati che sentivo verso qualche coetanea, sempre irraggiungibile.
Come credente non potevo accettare la distinzione della Chiesa, ero casta ma intuivo che la scissione tra amore e sessualità era assurda e ciò mi portò a non essere praticante ma a restare cristiana.
Lentamente iniziai a frequentare gay e lesbiche dichiarati e tanto diversi dagli altri. I ragazzi brillanti e spiritosi e le ragazze spesso distanti, così lontane, quasi che non mi riconoscessero come simile a loro.
Solo con un’amica molto dolce e fragile era diverso anche se mai parlammo di questo argomento. Tardi vissi il mio primo amore ricambiato in un’estate quasi irreale, in cui avevo obliato il passato e in cui per poco ma intensamente potei dire “ti amo” e sapere che la sessualità può essere una nobile espressione d’amore.
Ricordo che sentivo come se stesse crescendo un tenero germoglio, una pianta, e come il rapporto tra me e il mio amore andasse maturando, crescendo e una vita nuova stesse per iniziare. Ma nei giorni dell’imminente autunno quella ragazza volle bruscamente tagliare quella pianta, che non divenne una quercia ma restò un ramo tagliato, tristemente al margine della via.
Non la giudico e anche se mi fece soffrire le sono grata per quell’estate d’amore. Non volle un dialogo e a volte mi sembra strano che lei che conosceva i miei pensieri e il mio corpo fu reticente in quel brusco commiato.
Un anno dopo una malattia cronica sembra aver chiuso la mia vita sentimentale ma non ho dimenticato nessuna, né la luce di quei giorni, né le parole, i sommessi silenzi, i timidi sorrisi.