“La mia vocazione all’amore”. Sono una lesbica cristiana felice
Testo tratto da Claude Besson*, Homosexuels catholiques, sortir de l’impasse, (Omosessuali cattolici, uscire dal vicolo cieco), Éditions de l’Atelier, Parigi, 2012, libera traduzione di Dino
“La mia vocazione all’amore è diversa, ma non inferiore”. Prima di fare questa affermazione con serenità, ho avuto un cammino difficile e tortuoso che non mi ha fatto raggiungere la felicità, se non all’età di quarantasei anni. Nata negli anni ’50, ho imparato che la tenerezza di Dio era infinita e sono stata affascinata dal Vangelo e dalla via che Cristo ci proponeva. Ma parallelamente ho imparato che l’omosessualità era un peccato. L’omosessualità? Non esisteva! E se se ne parlava a fior di labbra senza pronunciarne il nome, in ogni caso “non rientrava nel piano di Dio“.
Con questo bagaglio e sin da quando ero molto giovane, mi sono dedicata con passione al servizio agli altri: fare la guida, accompagnare i pellegrinaggi, partecipare ai campi con bambini disabili, ai servizi parrocchiali e caritatevoli, e poi il mestiere di infermiera. Amare Dio e amare gli altri erano i miei valori massimi, rimuovendo inconsciamente ogni idea di sessualità. Opponevo un vero sbarramento mentale alla mia omosessualità, tanto ero desiderosa di poter rientrare nel “piano d’amore” di Dio.
Il mio disinteresse per i ragazzi, lo consideravo come il rifiuto della sessualità in generale. Di anno in anno, essere innamorata delle mie amiche diventava sempre più doloroso, e non comprendevo queste sofferenze d’amore incompiuto. Pensavo di avere la “vocazione all’amicizia”. Tutte le mie amiche, le mie sorelle, le mie colleghe sono sposate, mamme, nonne. E io? Quale era la mia vocazione?
Mi ero convinta che era nel servizio verso gli altri e nell’amore verso tutti, per una decina d’anni mi sono lanciata nelle cure a domicilio, senza calcolare il mio tempo, né la mia fatica, né la mia salute per curare e dare conforto ai malati e alle loro famiglie. Ed io? Io non avevo importanza. Il mio corpo? Lo stesso, dal momento che era robusto per lavorare…! Ma non si può trascurare impunemente il proprio corpo, ed il risultato concreto dell’annullamento e della negazione di sé è la malattia. Sono diventata obesa e malata, esaurita e inesistente.
All’età di trentotto anni, non potendone più della solitudine, soffrendo di tutte queste carenze e mancanze (è terribile amare per tutta la vita, senza poter toccare l’essere amato), ignorante della mia realtà e della mia verità, mi sono lasciata sedurre da un uomo che mi ha scritto “Ti amo”. Il solo che abbia usato queste parole. Mi sono sposata con un cristiano molto gentile.
Ma nella perfetta alleanza uomo-donna-Dio, ho vissuto una specie di desolazione. Fu un matrimonio di morte, una relazione contro la mia natura, che mi ha fatto ammalare gravemente. Questo matrimonio mi distruggeva. Più volte ho tentato il suicidio. Poichè ero incapace di amare, tanto valeva morire per amare per l’eternità. Stavo molto male, ma non avevo ancora compreso che il mio amore non era “nel posto giusto“. Malgrado la mia disperazione, sono rimasta sposata cinque anni per fedeltà al mio impegno.
Un giorno una donna mi ha aiutata. Mi ha fatto parlare, capire e discernere. Mi ha amata ed ha avuto il coraggio di abbracciarmi. Allora ho capito tutto. Finalmente ho “stabilito un legame”, tra l’amore intoccabile di tutte le donne che avevo amato e l’amore palpabile e realizzabile di due donne che si amano. Era dunque questa la mia verità!
Non sarò mai felice con un uomo e non renderò mai felice un uomo. In seguito, tutto è stato molto rapido. Ho potuto liberarmi di questo matrimonio letale (ed è stata anche una liberazione per mio marito, che non si riteneva più colpevole, sapendo di non essere lui la causa).
Ho incontrato altre donne cattoliche e omosessuali che mi hanno detto le parole giuste per sentirmi in armonia con Dio: “E’ in questo modo che tu sei a immgine di Dio e che Dio si rallegra infinitamente di te. Lasciati benedire così come sei. Vivi nella verità, la tua verità. Non sei nè una mezza-donna, nè una mezza-cristiana“.
Dopo questi incontri ho vissuto felice, in piena salute fisica, morale e spirituale. Alla fine ho associato la mia fede cristiana e la mia sessualità, il mio spirito e il mio corpo. é questa divisione che rende malati. A quarantasei anni ho finalmente trovato la donna della mia vita e viviamo in coppia felici, rifiorite e pienamente vive. La mia vocazione d’amore è diversa, non inferiore.
La mia felicità e la mia salute derivano dal fatto che l’ho compreso, accettato e realizzato. Di fronte a Dio e al mio primo amore, ho potuto riunire i pezzi sparpagliati, diventare infine quella che sono, senza sensi di colpa, finalmente serena e benedetta, perché ogni battezzato è chiamato “ad amare, e a dare”
* Aurélie, infermiera che vive in coppia da più di dieci anni