La mia vocazione di pastora, la mia scelta di essere queer
Testimonianza della studentessa di teologia Hannah Gallo dell’Union Theological Seminary di New York (Stati Uniti) pubblicata dal progetto Queer Faith il 12 marzo 2019, liberamente tradotta da Giacomo Tessaro
Uno dei più significativi privilegi della mia vita è essere nata unitariana universalista; questo significa che, quando ho deciso di dare seguito alla mia vocazione al pastorato, il pensiero di essere queer era lontanissimo dalla mia mente: mi preoccupava molto di più la retta dell’università piuttosto che cercare di capire in che modo vivere in una Chiesa che non mi accetta per quella che sono. Non voglio dire di non aver mai vissuto l’omofobia e la misoginia nella mia carriera di pastora queer, ma il fatto che la posizione ufficiale e la teologia della mia denominazione accolgono l’amore tra me e la mia compagna, e lo considerano valido e prezioso, rende più leggero il peso dei pregiudizi. Invece di consumare le mie energie nell’amare me stessa e nel celebrare la mia identità queer, per poter contrastare la marea dell’oppressione queerfobica nella mia Chiesa, posso utilizzarle per il bene della mia congregazione e lottare per la giustizia.
E cosa vuol dire lottare per la giustizia? Vuol dire che anche altri capiscano di avere diritto a predicare, che c’è gioia nel seguire la propria vocazione, che essere queer è una benedizione. Perché, non so se lo sapete, ma è proprio così.
Non penso di essere “nata omosessuale”: è qualcosa che ho scelto, e non torno indietro. È stata una scelta santa, sacra, che mi fa vivere davvero, che mi soddisfa. A chi sente che la sua relazione con Dio, con il Divino, con il Sacro, è compromessa per il fatto di essere queer, vorrei dire che non è così: quella relazione esiste per sostenervi, per tenervi stretti, per amarvi con tutto l’essere.
Testo originale: HANNAH GALLO ’18