Il coming out di una lesbica cristiana nella sua chiesa è quello più difficile
Testimonianza di Lee Battle pubblicata sull’edizione britannica dell’Huffington Post (Gran Bretagna) il 25 luglio 2019, liberamente tradotta da Chiara Spasari
Il coming out da cristiana omosessuale può rivelarsi ben più difficile di un normale coming out. Potrebbe sembrare strano, perché il messaggio al centro del Vangelo è “Ama il tuo prossimo come te stesso”. Gesù non ha aggiunto postille a questo monito; non ha precisato in un inciso “tranne le persone omosessuali”. Eppure la mia esperienza insegna che è esattamente questo che accade, quando si tratta di (omo)sessualità, in alcune Chiese: proprio nel luogo in cui ciascuno dovrebbe sentirsi accolto e amato, le persone LGBT si vedono spesso respinte.
Questo rifiuto può essere causa di imbarazzo, angoscia, disprezzo per se stessi, e di una particolare forma di dolore, tutte sensazioni tristemente comuni tra coloro che combattono per conciliare fede e identità sessuale. Circostanze simili rendono difficile provare amore per se stessi, e possono portare le persone a scontrarsi con l’intero messaggio evangelico.
Io lo so per esperienza.
La mia storia inizia alla fine degli anni ’90. La famiglia in cui sono cresciuta non era credente, perciò la religione non era una cosa di cui mi preoccupavo. Verso i dieci anni, però, cominciai ad accorgermi di apprezzare ed essere ispirata da donne, mai da uomini. Crescendo, queste sensazioni trovarono conferma, e capii di essere attratta dalle donne. Alle superiori istintivamente mi resi conto che era qualcosa che dovevo tenere nascosta: non ero come tutti le mie amiche, ero diversa, e la mia autostima per questo motivo crollò.
A metà anni Novanta c’erano così pochi punti di riferimento LGBT che era difficile credere che questa fosse una condizione accettabile. Questa fu la mia prima lezione sull’importanza della visibilità dei modelli. Volevo disperatamente essere “normale”, essere come tutti gli altri. Crescendo, questo bisogno divenne più forte. Tutte le mie amiche iniziarono a fidanzarsi, e mi sentivo davvero sola, dentro e fuori.
A 17 anni entrai in una congregazione evangelica. Non avevo mai vissuto qualcosa di simile: fedeli che saltavano in piedi ed elevavano i loro canti celebrando Dio. Tutti i membri della comunità sembravano così felici ed appagati, ed ero fiduciosa di poter sotterrare quel sentimento di disistima nei confronti di me stessa, ed essere come tutti gli altri fedeli.
Tuttavia, più frequentavo la chiesa, più mi vergognavo del fatto che Dio non mi liberasse. Mi rendevo conto di provare l’attrazione che gli insegnamenti di quella chiesa reputavano peccato, ma, per quanto mi impegnassi, non riuscivo a “scacciare l’omosessualità con la preghiera”.
Mi sentivo divisa in due. Potevo essere lesbica o potevo essere cristiana, ma non entrambe le cose. Mi sentivo un’estranea nella mia stessa vita, ora che i due poli fondamentali del mio essere sembravano porsi su due binari destinati a non incontrarsi mai.
Frequentare la congregazione divenne sempre più difficile. Continuavo a partecipare, ma iniziai a concentrarmi su quell’aspetto di me che era rimasto inesplorato. Non avevo mai avuto una ragazza, non avevo mai osato, e per caso incontrai un’amica di famiglia con cui iniziai a socializzare. Lei mi presentò un altro gruppo di donne, di cui alcune lesbiche. Ero in estasi! Entrai in confidenza con una di quelle donne, e iniziammo una relazione. Avevo finalmente una speranza di essere felice.
Ma iniziai a sentirmi peggio: adesso, per altri versi, provavo vergogna. Non potevo dirle della chiesa, ero troppo debole per andare in un posto da cui sarei stata allontanata se si fosse saputa la verità.
Fu allora, avendo una ragazza che amavo, che capii che non avrei potuto essere nient’altro che omosessuale. E così iniziai a chiedermi per la prima volta che forse, se Dio non mi aveva liberata dall’omosessualità, poteva darsi che io non dovessi liberarmene: osai pensare che forse era così che Dio aveva inteso che fossi.
Ci provai, e dissi al pastore di essere lesbica. Mi disse che avrebbe pregato perché mi fosse tolto questo peccato, prima di invitarmi a lasciare la chiesa. Disse anche che non avrei dovuto lavorare con i giovani della congregazione. Me ne andai sentendomi piena di vergogna, rifiutata. Avrei voluto mantenere il segreto. Adesso assaporavo davvero il rifiuto, invece di nutrire una debole speranza che ciò non succedesse.
Cercai di dimenticare Dio e la chiesa, accontentandomi per un po’ di essere “solo” lesbica. Ma la paura del rifiuto continuava a dominare sulla nostra relazione, ero insicura. Ci lasciammo.
Per cercare di trovare una sorta di àncora di salvezza, andavo ad assistere alle funzioni cattoliche, anche se sapevo che le persone LGBT non erano ben accette, e non mi capacitavo di come potessero essere contrari alla contraccezione in un tempo in cui l’AIDS mieteva tante vittime. Mi era garantita però la possibilità dell’anonimato. Entrare e pregare, e andare via senza che nessuno chiedesse chi fossi; sapevo già che non avrei potuto mentire sulla mia sessualità, se qualcuno avesse chiesto.
Più di cinque anni dopo essere entrata nella prima chiesa, non ero ancora riuscita a conciliare questi due importanti aspetti del mio essere. Continuavo a provare vergogna e a sentirmi profondamente sbagliata. Non possedevo un briciolo di quella sicurezza che nasce dal vivere ciò che sei veramente. Mi sembrava un sogno lontano e impossibile, perché le due componenti più intrinseche del mio essere non potevano convivere in armonia. La sensazione di dover nascondere una o l’altra parte di me, e di non poter vivere la mia autenticità, è qualcosa che ha ancora oggi un forte impatto su di me.
Arrivai a un punto di rottura quando mi sentii dire che Dio alla fine amava me, ma non il mio peccato.
La sessualità è parte di me, quindi quel “peccato” ero io. Non era un aspetto esteriore di me su cui decidere, non era qualcosa che potevo cambiare. In quel momento della mia vita lo volevo fare. Provai ad essere eterosessuale, tutto pur di sfuggire a quella lacerazione interiore che adesso mi rendo conto essere così comune nei cristiani LGBT. Devastata, pregai che Dio mi liberasse da quel fardello. Sentivo nel profondo che Dio mi aveva ascoltata, ma che non c’era modo di cambiare l’una o l’altra mia parte vitale di me stessa, e dentro di me sapevo che Dio non mi stava chiedendo di farlo.
Non riuscii ad inserirmi in un’altra Chiesa per più di dieci anni, poi infine, quando me la sentii, decisi di partecipare a dei culti nell’anonimato, per vedere se mi sentissi a mio agio. Alla fine, mi recai alla congregazione LGBT di Manchester, e subito mi sentii a casa. Parlando con gli altri fedeli, ascoltai molte storie simili alla mia sul conciliare fede e sessualità. Finalmente, e per la prima volta in quel contesto, trovai un totale e pieno equilibrio nell’essere sia lesbica che cristiana.
Vorrei dire che qui il mio viaggio finisce, e che da lì in poi tutto è andato liscio. Ma non è così.
In quella chiesa ho iniziato a prendere parte attivamente al culto, scoprendo, con mia grande sorpresa, che mi piaceva e che lo trovavo giusto. Decisi di andare all’università per frequentare un corso di laurea in teologia. Volevo capire meglio la Bibbia, e scoprire se quello che avevo subìto trovasse giustificazione in essa. Non era così. Ero determinata a non voler diventare pastora. Ma dopo due anni scoprii che Dio aveva altri piani per me: mi stava spingendo al pastorato, una cosa a cui non ero preparata, ma che sentivo profondamente giusta. Tre anni dopo, mi trovo all’ultimo anno di avviamento al pastorato.
Nei miei ultimi due anni di formazione mi sono state assegnate tre chiese meravigliose, ma fin dall’inizio sapevo che avrei dovuto essere onesta e sincera sulla mia sessualità. Nell’era dei social la gente non ci avrebbe messo molto a scoprirlo, a pensare che non ero sincera, o a fare della mia sessualità un argomento di chiacchiere da bar.
Così, in piedi davanti a loro, ho messo a nudo la mia anima e ho detto la verità. Sono stati tutti fantastici, e tuttavia non avrei dovuto sentirmi in dovere di farlo, anche se l’essere cristiani e omosessuali risulta ancora imbarazzante per molte persone.
Mentre proseguo il mio percorso per diventare pastora, ogni potenziale congregazione dovrà esprimersi sulla propria disponibilità ad accogliere un/a pastore/a LGBT, il che è frustrante, perché significa anteporre la mia sessualità alla mia persona. Comunque sia, i tempi stanno evolvendo, e so che comunque il mio ministero farà dell’inclusione il suo fulcro, perché l’amore non ammette eccezioni. L’amore è qualcosa che, nelle dovute condizioni, può conquistare ogni angolo che ne era privo. Ecco dove io vedo Dio.
Malgrado la mia iniziale determinazione a non diventare pastora, sono pronta a proiettare sugli altri l’amore che Dio mi dimostra, anche se il viaggio verso la totale inclusione non si è ancora concluso, ma l’amore è amore, e l’amore vince sempre.
Testo originale: Coming Out As A Gay Christian Was Harder Than Coming Out At All