La pastorale invita a unire l’accoglienza con l’integrazione
Articolo di Carlo Marroni pubblicato su “Il Sole 24 Ore” il 8 Settembre 2018.
Era Papa da pochi mesi quando Jorge Mario Bergoglio decise che il suo primo viaggio fuori dal territorio di Roma fosse a Lampedusa. Al confine Sud dell’Europa, in quel mare che aveva inghiottito migliaia di migranti. Un viaggio di un giorno che ha indicato la rotta del pontificato, contrassegnato proprio dai continui richiami all’accoglienza e all’integrazione, nel quadro dell’attenzione ai poveri e alle “periferie”, assieme alla pastorale economica che rimette sempre l’uomo al centro dei processi, e non il denaro.
Nell’intervista al Sole 24 Ore, Papa Francesco risponde al direttore Guido Gentili declinando a fondo la sua idea: essere aperti all’accoglienza, accompagnata con l’integrazione. Senza questa è inutile far entrare persone, condannate all’emarginazione o a finire in gorghi di nuovo sfruttamento.
«Investimento in lavoro che significa acquisizione di competenze», dice Bergoglio, che a questo aspetto ha dedicato documenti e discorsi, e assunzione di responsabilità, visto che la guida della sezione migranti nel nuovo dicastero per lo Sviluppo Umano integrale l’ha assunta personalmente ad interim. Un segnale della priorità dell’agenda migratoria, che la Chiesa ha sempre avuto, anche se con toni e attenzioni un po’ diverse.
Basti ricordare che la Giornata mondiale del Migrante fu pensata e istituita nel 1915 da Benedetto XV (nel 2017 per l’occasione Bergoglio parlò di cittadinanza a chi nasce in Italia, scatenando polemiche politiche interne relative a ius soli) e la tradizione è andata avanti, in parallelo con le molte attività di comunità e congregazioni religiose che si occupano di chi migra: per tutti basti ricordare cosa hanno fatto gli scalabriniani per gli italiani approdati via nave in terra d’America.
Accoglienza, quindi, anche se Benedetto XVI e Giovanni Paolo II usarono talvolta toni diversi da quelli di Bergoglio, il quale ha pure detto che non ci possono essere ingressi all’infinito, ma nei limiti della possibilità di ogni Paese. Nel 2003 Wojtyla sottolineò il quadro delle radici cristiane dell’Europa rispetto all’Islam e Benedetto parlò di «diritto a non emigrare».
La differenza di oggi rispetto al passato è dettata anzitutto dalle dimensioni del fenomeno in anni recenti, per dimensioni superiore e più drammatico rispetto a quello degli anni ’90 sulla rotta adriatica, pure tragico con il suo carico di morti. Poi Bergoglio parla in modo nuovo di integrazione dentro le società, lo fa e lo ha fatto a modo suo. Nel 2015 così salutò il presidente Obama alla Casa Bianca: «Sono qui come migrante».
E lo ripeté al Congresso americano ricordando che tutti in quella sala erano migranti o figli o nipoti di migranti (non tutti applaudirono). Tutti integrati, frutti di un ambiente che pur con enormi difficoltà ha cambiato il destino di intere generazioni: per esempio, non ha esitato nel 2016 a indicare la Svezia come un modello di accoglienza-integrazione. Dopo il viaggio simbolo a Lampedusa, due anni fa, si recò nell’isola greca di Lesbo, approdo sognato da quanti scappando perlopiù dalla Siria transitavano dalla Turchia per arrivare in Europa.
Erano i giorni in cui Ankara aveva siglato il patto con la Ue per sigillare i confini previo pagamento di 3 miliardi, patto tuttora in vigore. Da lì riportò in aereo delle famiglie siriane del campo profughi, poi affidate a Sant’Egidio: anche allora arrivarono strali delle frange estreme (meno di Lampedusa) ma a Bergoglio le beghe interne non interessano e mette in campo i suoi.
Come ha fatto, indirettamente, con i cento della Diciotti arrivati a Mondo Migliore di Rocca di Papa, ai quali due giorni fa ha mandato gelati attraverso il suo fiduciario cardinale Krajewski, l’Elemosiniere che di notte va in giro per Roma a portare cibo e coperte scortato dai gendarmi.
Non solo viaggi. Alcuni discorsi restano impressi nella storia del pontificato: al Parlamento europeo (2014), alla consegna del Premio Carlo Magno in Vaticano (2016). Ma è sulle terre di confine che Francesco esprime con i gesti la sua visione di Chiesa, e forse l’immagine di più grande impatto è del febbraio 2016, quando al termine del viaggio in Messico pregò sulle rive del Rio Bravo, che segna il confine tra Ciudad Juárez ed El Paso.
Era stato costruito un grande altare del migrante, a ricordo di chi ce l’aveva fatta e chi no. E proprio nel viaggio di ritorno disse, commentando l’idea dell’allora candidato Trump di costruire una barriera, che «chi costruisce muri non è cristiano». Non ha cambiato idea.