La pastorale per gli omosessuali: un termine che a me non piace
Riflessioni di Massimo Battaglio
A me, la Pastorale, come termine, ha sempre provocato fastidio. Un po’ come il sibilo di una zanzara o l’orticaria. Nella calura riposante di agosto, ho provato a pensare perché.
Pastorale non è un nome ma un aggettivo sostantivato, al pari di “tecnico”, “consacrato”, “notturno”. Nè più nè meno di “omosessuale”, termine su cui molti preti fanno retorica per dire che a loro interessa la persona e non la sua condizione. Solo che, mentre ciceronizzano per negare con eleganza che “omosessuale” esprima un’identità, usano invece “pastorale” come se fosse un assoluto.
Gli aggettivi sostantivati non sono mai assoluti. E per questo sono deboli: perché vogliono dire poco se stanno da soli. Devono fare riferimento a qualcos’altro. Per esempio, “tecnico” fa riferimento al lavoro o al lavoratore (lavoro tecnico, funzionario tecnico). E così “consacrato” e “omosessuale” fanno riferimento appunto a una persona.
Lo stesso vale per “pastorale”, che però può sottendere un sacco di termini come “azione”, “missione”, “attenzione”, “progetto” o “accompagnamento”. E lì nasce il secondo pasticcio: quale sottinteso scegliere? E soprattutto: un termine può voler dire cose anche contraddittorie tra loro?
Altra riflessione: gli aggettivi sostantivati nascono quasi sempre per semplificazione. Come per abbreviare il discorso perché tanto siamo tra di noi e ci si intende. Così è nato il “serale” per indicare il corso di studi per studenti lavoratori, o l’ “amaro” per denotare il liquore digestivo al termine dei pasti. Ora: le semplificazioni da lessico familiare sono simpatiche quando si resta per l’appunto in famiglia. Altrimenti sanno di conventicola. E infatti, il termine “pastorale” è un classico dei discorsi tra preti che parlano di quali azioni propinare ai laici.
Per me, la Chiesa non è questa cosa qui: non è un gruppo di impiegati del sacro, più o meno affiatati, che inventano strategie per avere un seguito e fare bella figura. Nella Chiesa è necessario l’apporto di tutti i cristiani, poiché l’ultimo dei battezzati (altro aggettivo sostantivato ma di altro spessore) ha lo stesso valore del papa. Un progetto pastorale deve tenere conto non solo delle sue esigenze ma anche della sua opinione e soprattutto del suo potenziale contributo attivo. In altre parole: credo che, nel gregge di Dio, tutti sono un po’ pastori di tutti, ciascuno nel suo specifico.
La “pastorale per gli omosessuali” è un doppio inganno: due aggettivi sostantivati per descrivere una sola cosa. Si rischia davvero di perdere il significato. Tutto si riduce a uno slogan altisonante, come “Dio, patria e famiglia” o “un popolo di eroi, santi e navigatori”. Triadi che riempiono i polmoni ma non vogliono dire precisamente niente. Nel nostro caso è un po’ peggio, dal momento che quei motti erano almeno composti di nomi e non di aggettivi. Noi siamo più vicini a “Il buono, il brutto e il cattivo”, che resta un film piacevole ma senza pretese programmatiche o escatologiche.
Nell’ottica che dicevo prima, quella della sostanziale uguaglianza tra me e il papa (o forse dovrei dire “tra noi”, usando a questo punto il plurale maiestatis), mi piacerebbe che si parlasse almeno di pastorale “delle” persone omosessuali, e non “per” gli omosessuali.
Perché ripeto: la Chiesa non è un ente dispensatore di servizi “per” un pubblico di utenti. E’ piuttosto una famiglia, una comunità, in cui ciascuno fa il suo pezzettino per seguire un unico Pastore il cui regno non è di questa terra. E in questo agire, ciascuno ha da ricevere ma ha anche qualcosa da dare. Molto appropriatamente si sente infatti dire “pastorale della famiglia” o “pastorale dei giovani”, sottolineando che il rapporto tra Chiesa e famiglia o tra Chiesa e giovani è come minimo scambievole.
Parlare di un’azione pastorale “delle” persone omosessuali fa invece orrore. Sa di eresia. Come se le persone lgbt non avessero niente da dare agli altri cristiani ma solo da ricevere. E l’oggetto del ricevere è molto chiaro, anche se, ancora una volta, sottinteso: bastonate. Magari truccate da grissini o lecca lecca ma sempre piuttosto indigeste.
Oggi poi c’è la moda della “pastorale inclusiva“, che sa di zucchero filato, dolce e inconsistente. Nella pratica più comune vuol dire: è gay? Ma sì, gli facciamo suonare l’organo e spiegare le madonne nelle gite ai santuari. E’ gay e fidanzato? Solo organo, ben nascosto dietro la consolle.
Mi piacerebbe un passo indietro: invece di parlare di pastorale, concetto generale, vasto, cominciamo a parlare di ascolto. Anzi: ascoltiamo senza parlare. Nasceranno sicuramente suggerimenti sull’azione e sul termine.