La paura di parlare apertamente dell’omosessualità nel clero della chiesa cattolica
Articolo di Josselin Tricou* pubblicato sulla rivista Sociologie (Francia), 2018/2 (Vol. 9), pp. 131-150, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro, parte nona
Cercare deliberatamente lo scandalo è proprio ciò di cui è stato accusato monsignor Charamsa da parte dei custodi del cattolicesimo identitario. Basta leggere il post intitolato La chute d’un prêtre (La caduta di un prete) sul blog www.padreblog.fr , scritto da un giovane sacerdote della diocesi di Versailles ed ex allievo di Charamsa a Roma: “Noi non giudichiamo l’anima di questo sacerdote. Siamo tutti poveri peccatori. Capiamo benissimo che se ne vada, che non sia più in grado di svolgere il suo ruolo.
Avrebbe potuto andarsene in maniera umile e discreta, e nessuno lo avrebbe giudicato, ma ora abbiamo il diritto di chiedergli di non scioccare tutti coloro che hanno fiducia nei sacerdoti, di non danneggiare il sacerdozio nel quale è stato ricevuto e che condividiamo, di non diffondere il veleno del dubbio e del sospetto, in modo da proteggere i suoi confratelli. Se cadi, ti ritiri in umiltà e silenzio, e chiedi perdono, non rigiri la frittata accusando la Chiesa! Immaginate un uomo che tradisce la moglie, e che, invece di chiedere perdono per il suo tradimento, giustifica il suo adulterio accusando lei!”.
Dato il tempismo del suo coming out di fronte ai media, che ha coinciso con la vigilia dell’apertura di un sinodo di vescovi che verteva sulle questioni di morale sessuale e famigliare [1], dove sarebbe stata discussa l’accoglienza alle persone omosessuali, e in un’epoca dove tale dibattito provoca una spaccatura profonda tra i cattolici, e dati i suoi pronunciamenti pubblici (inclusa la sua volontà di essere esplicitamente citato in questo articolo), è chiaro che monsignor Charamsa vuole presentarsi come colui che segnala gli illeciti presenti nella Chiesa, come David Berger prima di lui: “La Chiesa invita di fatto a una doppia vita, anzi, ne è impastata. È questo che voglio dire pubblicamente. E questa sistematica imposizione di una doppia vita interferisce con tutto il resto […] In breve, quando sei un sacerdote, fai consciamente o inconsciamente parte di un sistema che mente sulla tua sessualità”. (Monsignor Charamsa, ex membro della Curia romana, 43 anni)
Tuttavia, certi “pseudo gay” che sostengono il cattolicesimo aperto, non vedono necessariamente le azioni Mons Charamsa in una luce migliore, più di quanto facciano sacerdoti identitari. Alcuni le considerano “coraggiose ma inappropriate” (padre Robert), o persino “controproducenti” (padre Jean-Marc, tutor di un seminario, 60 anni); sono giudizi strategici, che riflettono la paura che tali colpi di teatro possano alla fine rafforzare la politica del “non dire”.
Forse una reviviscenza di tale politica sembrerà necessaria, visto l’emergere dall’ombra di attivisti e sacerdoti con identità “troppo” assertive, in quanto formatesi a contatto con la sottocultura gay. Forse la mascolinità clericale è a rischio di perdere il suo significato simbolico, dato che in Occidente già soffre di una subordinazione simbolica, aggravata dalle recenti ondate di rivelazioni sui preti pedofili. Più concretamente, forse tali sacerdoti saranno tentati di parlare e/o di comportarsi secondo le norme clericali, ma in maniera più rilassata che in passato, a differenza dei sacerdoti omosessuali più anziani o dei giovani provenienti da ambienti molto tradizionalisti, come padre Adrien.
“Ha ragione […] noi giovani monaci, diciamo attorno ai 40 anni, siamo più liberi nel parlare… Padre Marius, be’, è gay, ma è quello che viene definito una “talpa”. È arrivato negli anni ‘50, allora era come se la comunità [una tipica comunità identitaria cattolica, di cui aveva parlato in precedenza] non ne parlasse mai, e quindi non veniva esibito. Ma lei ha ragione, c’è stata una liberazione nella [nostra comunità] negli ultimi decenni, e una maggiore libertà di parola. Ma non necessariamente maggiore rilassatezza nella morale, precisiamo! Non è un bordello, non ce ne andiamo in giro in mutande, questo mi pare ovvio!” (Padre Dominique, monaco, 45 anni)
“L’atmosfera gay tra i giovani è molto pesante, e mi fa sentire molto a disagio. A volte mi viene da pensare che prima non ero omofobo, ma ora lo sto diventando. […] Ho anche scritto una lettera [all’abate] per informarlo.” (Padre Gaston, monaco, 70 anni, appena tornato in Francia dopo una lunga permanenza in un Paese in via di sviluppo)
[1] Il Sinodo dei Vescovi era intitolato “La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo”. Questo sinodo “ordinario” faceva seguito a un sinodo “straordinario”, convocato da papa Francesco un anno prima e intitolato “Le sfide pastorali che attendono la famiglia nel contesto dell’evangelizzazione”, un sinodo che ha visto molte tensioni tra i partecipanti sulle questione del matrimonio omosessuale, dopo varie dimostrazioni di piazza contrarie.
Testo originale: Recreating “moles”: Managing homosexual priests’ silence in an era of gay marriage