La Resurrezione è la sconfitta della Croce
Riflessioni bibliche* di Élian Cuvillier** pubblicate sul sito Protestants dans la Ville (Francia) il 5 aprile 2020, liberamente tradotte da Giacomo Tessaro
I testi pasquali ci svelano Dio sotto una luce nuova, e i racconti della resurrezione ci aprono a una nuova comprensione della vita e della nostra identità. Pasqua ci apre all’alterità, necessaria per salvare le nostre vite dalla superficialità.
La proclamazione “Cristo è resuscitato” non si presenta come la soluzione alla sconfitta della Croce; al contrario, attesta la sua validità, e ne costituisce l’interpretazione creativa. Proclamare la Resurrezione di Cristo vuol dire affermare che la sconfitta della Croce è una potenza di vita inattesa, insospettata; non ci porta un Messia glorioso che vince il male e la morte, bensì un Messia crocifisso.
È Gesù, il “crocifisso” (Marco 16:6), ad essere resuscitato, non un “supereroe” la cui sconfitta è soltanto apparente. La Resurrezione di Cristo si pone in discontinuità con le aspettative religiose tradizionali, quelle dei salvatori onnipotenti, che si sbriciolano sul legno della Croce. Di tali aspettative religiose la Resurrezione di Cristo propone una nuova interpretazione, una nuova riconfigurazione.
L’apostolo Paolo, in particolare, ha lasciato che dentro di sé operasse la potenza creativa della sconfitta della crocifissione di Gesù (cfr. 1 Corinzi 1:18-25). Per lui è la Croce il luogo dove oramai Dio si rivela: nel Crocifisso Dio è solidale con l’uomo nella miseria in cui è nato. La fede pasquale, secondo la quale Dio ha risuscitato dai morti un crocifisso, segna la nascita di un nuovo modo di concepire Dio.
Sulla Croce Dio si rivela, non sotto il segno della forza e del potere, bensì sotto la maschera della debolezza e della morte. Ecco perché la sconfitta della Croce può essere concepita sia come decostruzione delle immagini classiche di Dio, sia come apertura decisiva nell’impasse in cui cade l’esistenza umana. La proclamazione pasquale parla di una rottura e di una rifondazione (che ha la pretesa di essere universale) della storia personale dei credenti. I discepoli divengono testimoni di una verità che è universale perché individuale: ciò che è stato decisivo per loro, può esserlo per ogni essere umano.
La Resurrezione non vuole prove materiali, ma una rivelazione che inauguri una nuova concezione di Dio, di se stessi e del mondo. La proclamazione “Gesù è resuscitato” è un avvenimento autentico per chi la riceve nella fede, e questo è ben espresso nel racconto dell’incontro tra Gesù e Maria Maddalena (Giovanni 20:11-18). Di questo testo estremamente ricco vorrei sottolineare due elementi centrali. In primo luogo, nessun passo nel Nuovo Testamento sottolinea in maniera altrettanto decisa che vedere Gesù resuscitato non è affatto sinonimo di “credere nella Resurrezione”.
Maria vede Gesù, ma non lo riconosce; lo riconosce solamente quando egli la chiama (versetto 16). Cristo è resuscitato nella misura in cui la Resurrezione significa, per Maria, una nuova concezione di se stessa nel momento in cui Gesù la chiama per nome, vale a dire, la riconosce come soggetto individuale.
Secondo punto: il fatto che Maria non possa più avere accesso a Gesù come prima: “Non trattenermi”, o “non toccarmi”, le ordina (versetto 17). C’è una forte differenza tra il Gesù terrestre e il Resuscitato: quest’ultimo lo possiamo incontrare solo nella fede, ovvero in una relazione di fiducia in grado di attuare una profonda rifondazione dell’esistenza.
È una rottura, un voltare radicalmente pagina: dopo la Resurrezione non si può riprendere la vita di prima; non si può più avere lo stesso rapporto con Gesù e con la propria esistenza. L’esperienza pasquale ci stravolge e ci apre su altro, toglie le barriere tra il mondo e la rappresentazione che ce ne facciamo.
La proclamazione della Resurrezione opera come una falce contro la fatalità e la disperazione, e lascia aperta una possibilità quando gli esseri umani non ne vedono nessuna. La proclamazione della Resurrezione apre una fessura nelle contingenze di questo mondo, ed è così che bisogna comprendere la parola di Paolo: “Se abbiamo sperato in Cristo per questa vita soltanto, noi siamo i più miseri fra tutti gli uomini” (1 Co 15,19).
Fin quando la nostra esistenza non si aprirà all’alterità, fin quando si limiterà a ciò che è constatabile e ammesso come evidente, fin quando si esaurirà nel semplice godimento dei beni di questo mondo, noi saremo miseri, perché saremo morti pur avendo sembianze di viventi.
* I passi biblici sono tratti dalla versione Nuova Riveduta.
** Élian Cuvillier è ministro della Chiesa Protestante Unita di Francia. Dopo aver insegnato per molti anni Nuovo Testamento all’Istituto Protestante di Teologia di Montpellier, oggi si occupa del master di teologia applicata ed è coordinatore dei futuri pastori.