La scelta di vivere nel celibato la propria omosessualità
Articolo di Sarah Pulliam Bailey pubblicato sul sito di informazione Religion News Service (Stati Uniti) il 4 agosto 2014, liberamente tradotto da L. Martinelli, prima parte
Quando Julie Rodgers ha fatto coming out all’età di 17 anni, dichiarando di essere lesbica, sua mamma ha reagito portandola in un ministero ex-gay a Dallas. Rodgers era crescita in una chiesa evangelica non denominazionale, dove era dato per scontato che essere omosessuale non fosse concepibile. «I ministeri ex-gay mi hanno dato lo spazio per parlare con sincerità della mia sessualità», dice Julie, ora ventottenne. Tuttavia, è stata proprio la sincerità che, alla fine, l’ha allontanata dai ministeri ex-gay.
Julie Rodgers ha passato numerosi anni presso Exodus, un ministero ex-gay oramai defunto, prima di rendersi conto di non riuscire a diventare eterosessuale in seguito ad alcuni appuntamenti con degli uomini, andati male; ha quindi optato per il celibato.
Quando Exodus ha chiuso i battenti nel 2013, alcuni pensavano che questo avrebbe segnato la fine dei ministeri ex-gay che incoraggiano le terapie di conversione o riparative, mirate a rendere etero le persone omosessuali. Alcuni gruppi ex-gay, come Restored Hope Network, ne hanno preso il posto, ma numerosi capi religiosi stanno incoraggiando le persone con orientamento o attrazioni omosessuali a prendere in considerazione una vita di castità.
Per anni le persone omosessuali, e tutti coloro che erano alle prese con l’omosessualità, hanno pensato di avere poche buone possibilità: abbandonare la fede, ignorare la propria sessualità o provare a cambiare. Ma come alcuni gruppi, come Exodus, hanno cominciato a perdere popolarità, e alcune persone, tra cui Julie Rodgers, hanno scelto un modello differente: cristiani gay e cristiane lesbiche celibatari, che cercano di essere coerenti con la loro sessualità, ma anche con la loro fede.
A cavallo di una delle spaccature più profonde nel panorama culturale americano, Vanessa Vitiello Urquhart ha scritto recentemente un articolo per Slate, in cui sostiene che i cristiani omosessuali celibatari mettono a dura prova la tolleranza sia delle loro chiese, sia della comunità laica LGBT. Tali cristiani omosessuali celibatari spesso si ritrovano a fare da mediatori tra le due parti.
Ma, spesso, nessuna delle due parti comprende realmente quello che sta sentendo.
«È facile essere fraintesi, per usare un eufemismo, da entrambe le fazioni di questa guerra culturale», afferma Julie Rodgers: «Per coloro che hanno una posizione favorevole all’espressione dell’omosessualità è come se fossimo degli omofobi repressi, che provano disprezzo per se stessi e che incoraggiano la chiesa a rimanere salda sulla sua posizione in merito all’omosessualità. I cristiani conservatori, invece, pensano che coloro che cedono terreno nel campo della sessualità siano dei ribelli».
Passaggio da ex-gay
L’allontanamento dei cristiani dalle terapie ex-gay ha avuto luogo nel bel mezzo di cambiamenti culturali di grande portata, tra cui una più ampia accettazione a livello sociale dell’omosessualità e la rapida legalizzazione del matrimonio civile per persone dello stesso sesso.
Nel 2009, l’American Psychological Association ha adottato una risoluzione secondo la quale i professionisti attivi nell’ambito della salute mentale devono esimersi dal dichiarare ai clienti di essere in grado di cambiare il loro orientamento sessuale. Da allora, la California e il New Jersey hanno approvato delle leggi che vietano le terapie di conversione per i minori, mentre svariati altri Stati stanno prendendo in considerazione tali misure.
All’inizio di quest’anno, l’American Association of Christian Counselors, un’associazione che conta 50.000 membri, ha emendato il suo codice deontologico per eliminare la promozione delle terapie riparative, incoraggiando piuttosto la castità.
«I counselor sono consapevoli del diritto fondamentale del cliente all’autodeterminazione, e comprendono che le convinzioni e i valori religiosi solidamente radicati possono entrare in conflitto con un atteggiamento omosessuale o con un’attrazione verso lo stesso sesso, il che potrebbe sfociare in ansia, depressione, stress e conflitto interiore», recita il codice revisionato.
Numerosi leader del movimento ex-gay hanno abbandonato quegli stessi insegnamenti che un tempo avevano abbracciato. John Paulk, un ex testimonial del movimento ex-gay, nel 2013 si è scusato per la terapia riparativa che egli stesso aveva promosso. Yvette Schneider, che in passato ha lavorato per gruppi come il Research Council, il Concerned Women for America ed Exodus, ha recentemente pubblicato un’intervista di “coming out” con GLAAD [Gay & Lesbian Alliance Against Defamation, Alleanza Lesbica e Gay contro le Diffamazioni], chiedendo divieti per le terapie riparative. La scorsa settimana, nove ex leader ex-gay hanno denunciato le terapie di conversione.
Mark Yarhouse, un professore di psicologia presso la Regent University che ha effettuato delle ricerche sui cristiani ex-gay, sta cominciando a studiare i cristiani omosessuali celibatari: «Gli evangelici ci tengono talmente tanto al matrimonio che per loro è difficile apprezzare l’essere single o la castità».
Alcuni cristiani hanno abbandonato i ministeri ex-gay e hanno cominciato a sostenere i gay e le lesbiche. Josh Wolff, gay, laureato nel 2009 presso la Biola University’s Rosemead School of Psychology, ora psicologo clinico abilitato, ha affermato di essersi sottoposto ad una terapia riparativa per circa due anni, prima di accettare appieno la sua sessualità.
«Ho assistito ad un distanziamento concreto da frasi come “Devi andare da uno psicologo, potrebbe guarirti e renderti etero”», afferma Wolff: «Quando Exodus si è fatto avanti e ha detto “Ci dispiace per il dolore che abbiamo arrecato”, penso che questo abbia aperto gli occhi a molti membri delle comunità religiose, facendo capire loro che questi trattamenti non funzionano per la stragrande maggioranza delle persone».
Testo originale: Gay, Christian and … celibate: The changing face of the homosexuality debate