La sfida dell’idolatria alla pastorale LGBTI
Intervento* di padre Bryan N. Massingale tenuto all’assemblea del Global Network of Rainbow Catholics (Rete Globale dei Cattolici Arcobaleno) di Chicago (Stati Uniti), il 4 luglio 2019, liberamente tradotto da Chiara Spasari
Prendo parte a questo dibattito in qualità di sacerdote e teologo gay e di colore. Sono cosciente non solo del mio orientamento sessuale e religioso, e dei miei studi sui princìpi etici della Chiesa, ma anche delle storiche battaglie per la libertà degli afroamericani negli USA, battaglie che, nella loro essenza, sono questioni di anima e di spirito.
Condivido questo con voi perché non potrei presentarmi a voi come una “auto ibrida”, che oggi va a gas e domani a elettricità. La notizia non è “il prete fa coming out”. Questo succede quando la gente si limita a considerare quell’aspetto della mia (o della vostra) identità che le fa comodo, mettendo fra parentesi altre problematiche e sfaccettature che pure sono parti integranti della nostra identità. Ad esempio, anche se dedico la mia vita alla causa antirazzista, negli ambienti LGBTI gran parte della gente non vuole affrontare l’argomento; vuole solo occuparsi dei miei scritti e delle mie opinioni sulla sessualità – la “roba sul sesso”.
Ma per il mio benessere emotivo e spirituale non posso, e -per correttezza etica e morale non lo farò- mettere da parte il mio essere “nero” per mettere in luce il mio essere gay, così che possiate considerare ciò che più vi mette a vostro agio. Di me dovete considerare ogni aspetto, o nessuno. Non voglio consumare le mie energie per costruire una Chiesa o un mondo in cui di me solo una parte è ben accetta, stimata, benvoluta, perché se accettate solo una parte di me, vuol dire che non mi accettate!
Inoltre, se non siete disposti ad accettarmi, allora non state prendendo sul serio la questione dell’inclusione e dell’uguaglianza delle persone LGBTI, perché, come ci ricorda la poetessa e attivista lesbica afroamericana Aude Lorde, molte persone LGBTQI non possono impegnarsi in battaglie solitarie, perché non viviamo vite solitarie.
Il razzismo/nazionalismo dei bianchi è una questione LGBTI; spesso determina chi è accolto e chi ostracizzato anche da “noi”. La violenza armata è una questione LGBTQ. L’immigrazione è una questione LGBTI, non solo qui negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo, come infatti mostra la questione dei richiedenti asilo, che in Sud Africa e in Europa si trovano ad affrontare complessi ostacoli e pregiudizi.
Se vogliamo essere fattivi sostenitori della causa LGBTQI dobbiamo interessarci all’intera comunità, e non solo a quelli che più si avvicinano al canone europeo, bianco, borghese ed eterosessuale.
Dopo questa premessa, il concetto teologico fondamentale che vorrei condividere con voi è questo: la questione cruciale che come persone LGBTQI dobbiamo affrontare non è un problema di etica sessuale. La questione più ardua che si pone è quella dell’idolatria.
Permettetemi di spiegarvi con un’esperienza personale. Imposterò la mia riflessione secondo il classico sistema in tre fasi usato dalla riflessione e analisi sociale cattolica: “Guardare”, “Giudicare” e “Agire”.
Guardare: “Cosa succede?”
Feci il mio primo ritiro ignaziano – un ritiro spirituale guidato- da seminarista nel 1982. Uno dei passi assegnati per la meditazione era il racconto della creazione, nel libro della Genesi, in cui Dio crea il cosmo in sei giorni. Nella mia meditazione, immaginai me stesso come un osservatore della bellezza della creazione, illustrata secondo la parola di Dio. Vidi apparire le stelle; emergere le terre; gli animali e le creature della terra popolare terre e mari; e infine l’essere umano a completamento della creazione.Guardai il creato e scorsi amici e persone che conoscevo. Era meraviglioso.
Tuttavia, guardai il creato e le genti del mondo e notai che, quando la creazione fu completata, non c’era una sola persona di colore, né c’erano omosessuali. Guardavo l’umanità, tutti quelli creati a immagine di Dio, e non ce n’era uno che somigliasse a me. O che amasse come me. Non c’era niente nella creazione che mi rispecchiasse.
Questo mi scosse profondamente, intimamente. Mi faceva male nell’anima. Ero, come direbbero gli Inglesi, “gutted”, svuotato, perché significava che, nonostante otto anni di scuola primaria cattolica, quattro anni di liceo cattolico, quattro di università cattolica da studente di filosofia e teologia, e tre da seminarista specializzando in teologia (e con ottimi risultati!) – che nonostante tutto ciò che mi era stato insegnato su come tutti gli uomini siano creati a immagine e somiglianza di Dio – in qualche remoto angolo della mia mente, non ci credevo. La mia stessa preghiera tradiva il fatto che non ci credevo. Non credevo che Dio potesse essere immaginato come nero. O come gay. E di sicuro neanche le due cose insieme.
Quando riferii questa esperienza meditativa alla mia guida spirituale, lei saggiamente disse “Beh, credo che tu abbia del lavoro da fare”. Così mi diede altri passi su cui meditare, passi che parlavano dell’amore di Dio. Mi invitò a pregare su di essi. Ma non potevo farlo. Non volevo sentire parlare dell’amore di Dio, perché ero arrabbiato. Ero in collera con Dio per avermi creato nero e gay.
Ricordo che una notte mi svegliai e presi a pugni il cuscino per la rabbia e il dolore, ripetendo ”PERCHÉ MI HAI FATTO QUESTO? IO NON TE LO AVEVO CHIESTO! CHE RAZZA DI DIO SEI? Perché mi hai creato così, per sopportare tutto questo dolore, tutte queste offese, tutta questa repulsione?”; urlai e imprecai, agitandomi e singhiozzando bollenti lacrime di rabbia, tristezza e amarezza.
Fu solo dopo aver pianto, protestato, urlato e imprecato – esausto di tutto il dolore e la rabbia, la paura e la sofferenza, e lo sdegno – fu solo allora che Dio poté filtrare tra le crepe della mia anima. Riuscii a sentirlo leggendo le parole “Tu sei prezioso alla mia vista e ti amo” (Isaia 43). Piansi di nuovo, ma stavolta lacrime di gioia, una gioia indescrivibile. Dopodiché potei meditare sul secondo racconto della creazione, dal secondo capitolo della Genesi, quello in cui la creatura terrestre viene plasmata con il fango. Ho visto me stesso come quel primo essere umano e sentito Dio soffiare la vita – la vita di Dio -dentro di me. Ero, finalmente, un’autentica parte della creazione divina.
Giudica: Riflessione di Fede
Il principale ostacolo che affrontiamo in quanto persone sessualmente discriminate non è un problema di etica sessuale. Tendiamo a pensare, e ci viene detto, che i nostri problemi nella Chiesa e nella società nascono dalla nostra mancata conformità ai dettami morali della Chiesa.
Ma la Chiesa ha una soluzione a questo problema. Se pecchi, puoi confessarti, Ricevi l’assoluzione, il perdono. Molti di noi conoscono questa storia. Abbiamo confessato molti dei nostri “peccati” e fallimenti nel vivere all’altezza degli insegnamenti ufficiali della Chiesa sulla morale sessuale.
Ma non è questa la nostra questione, o battaglia, principale. La problematica più grave – quella che ci provoca più dolore, alienazione ed autoestraneazione – è che ci è stata raccontata una storia falsa su Dio e ci sono state restituite immagini di Dio false. Questo è il nostro problema.
Alla base di tutte le lotte che dobbiamo sostenere in tutto il mondo, e di tutte le storie che abbiamo ascoltato in questa sede – storie sull’essere scacciati dalle parrocchie, ostracizzati dalla nostra famiglia, e in generale non essere accettati – a monte di tutte queste esperienze è la storia che il cattolicesimo racconta su di sé.
Fulcro di questa storia è che essere cattolici significa essere eterosessuale. “Cattolico“ = ”etero”. Il cattolicesimo ufficiale racconta una storia in cui solo gli eterosessuali, l’amore eterosessuale, l’intimità eterosessuale, le famiglie eterosessuali possono rispecchiare senza ambiguità il Divino. Solo questi sono autenticamente sacri. Genuinamente santi. Solo questi sono degni di accettazione e rispetto incondizionati. Ogni altro individuo ed espressione d’amore, famiglia, vita, intimità e identità sessuale sono consacrati (se mai lo sono) solo in via eccezionale o per amor di tolleranza.
Difatti, ci viene detto di essere degli “errori” nella storia della creazione, non parte del piano originale. In altre parole, siamo “figli di un Dio minore” (1).
(E questo, se veniamo inclusi in ciò che è “santo”. Più spesso, veniamo decisamente respinti come portatori del male, che incarnano tutto ciò che non è santo, sacro, e di Dio).
So che è difficile e crudo da sentire, ma dobbiamo essere onesti, e dobbiamo andare a fondo. Sì, senza dubbio dobbiamo riconsiderare l’etica sessuale ufficiale della nostra Chiesa. Ma ancor più, dobbiamo riconsiderare Dio. Dobbiamo toglierci questo falso “dio “dalla testa, perché questo falso “dio” è la causa primaria della nostra persecuzione sociale e del nostro autoestraneamento, delle nostre lotte per l’autoaccettazione. Come possiamo amare noi stessi se non crediamo di essere degni dell’amore di Dio? Se crediamo di non essere parte della creazione, o che Dio non avrebbe mai voluto la nostra omosessualità? Se crediamo ciò, allora “Dio” si limita a tollerare noi e la nostra ricerca di amore?
Ma quel “dio” è un falso dio, un idolo: un’idea dell’uomo elaborata per giustificare l’esclusione e le ingiustizie. Ecco perché il problema dell’idolatria non è oggetto di interesse solo per gli appassionati di teologia, come me, o per i nostalgici delle storie bibliche dell’infanzia sui vitelli d’oro che Mosè distrugge senza pietà.
Gli idoli, come ci ricorda Gustavo Gutierrez, sono dèi assassini (2). Gli idoli richiedono sacrifici: il sacrificio della nostra integrità, della nostra intelligenza, del nostro amore, anche delle nostre vite. Minacce di morte, vilipendio, tortura di persone omosessuali, omicidio di transessuali, epidemia di suicidi che dilaga tra noi, e su questo il silenzio della Chiesa (ad esempio, il massacro del 2016 a Orlando, in Florida), tutto questo dimostra i risvolti criminali dell’idolatria, che legittima la violenza omofoba, perché la gente non fa mai del male così volentieri come quando lo fa in nome di Dio.
Come ben spiega il teologo della liberazione uruguayano Juan Luis Segundo, “Il nostro modo, falso e non autentico, di trattare gli altri esseri umani, è imparentato con la nostra manipolazione dell’idea di Dio. La nostra perversa idea di Dio e la nostra ingiusta società sono legate in una stretta e pericolosa relazione” (3). Ovunque voi troviate ingiustizia sociale, nelle vicinanze, o proprio dietro l’angolo si cela l’idolatria.
L’immagine che i credenti hanno di Dio ha notevoli effetti sociali ed influenza la loro interpretazione della giustizia. Per idolatria intendo la diffusa convinzione che solo le persone, i sentimenti, le relazioni eterosessuali siano ordinarie, regolari, universali e autenticamente “cattoliche”, che solo esse possano essere mediatrici del Divino e veicolo di santità, che Dio possa essere immaginato soltanto come eterosessuale, che questo Dio ”bianco ed eterosessuale” legittimi l’esclusione sociale e lo stigma. Questa è l’idolatria, cioè “la divinizzazione di ciò che non è Dio” (4).
Perciò la riflessione cattolica sulla giustizia sessuale deve appellarsi all’onestà e al coraggio per sfidare apertamente il legame della Chiesa con quel ”dio” alieno. Senza usare perifrasi, l’idolatria è la fondamentale sfida teologico-politica che come credenti, teologi e militanti della fede dobbiamo affrontare.
Agire: implicazioni per pastorale e sostegno LGBTI
Cosa dobbiamo fare dunque? Fratelli e sorelle, io propongo tre suggerimenti per la nostra riflessione. Primo, dobbiamo rifiutare la menzogna. Dobbiamo affermare, senza compromessi, il grande valore delle vite LGBTQI. Delle nostre vite. Dobbiamo proclamare con fermezza e insistenza di essere nella stessa misura redenti da Cristo e profondamente amati da Dio. Non lo ripeteremo mai abbastanza. Dobbiamo ribadire a noi stessi e agli altri, ancora e ancora, “Tu sei amato e degno d’amore. Sei santo, perché sei a immagine di Dio”. Dobbiamo rifiutare la menzogna.
Secondo, dobbiamo alimentare la cultura del coraggio nella nostra chiesa. Citerò S. Tommaso d’Aquino (perché, come cattolici, non avrete mai problemi citando lui!): “Il coraggio è il presupposto di ogni virtù”. Vale a dire, per esercitare qualsiasi virtù, dovete avere coraggio. Se non avete coraggio, non avete virtù. Dobbiamo creare una nuova Chiesa in cui la virtù primaria non sia l’obbedienza, ma il coraggio.
Questo è perfettamente “ortodosso”. Dobbiamo avere il coraggio di dire la verità in una Chiesa che troppo spesso è legata ad un falso dio. Come il fondatore di Dignity disse, cinquant’anni fa, a coloro che si riunirono per il primo incontro: “Se non siamo noi a difendere la bellezza, la sacralità, l’integrità delle nostre relazioni, chi lo farà?”. Dobbiamo avere il coraggio di difendere il valore del nostro amore, e il coraggio di opporci a chi ci mette a tacere.
Infine, dobbiamo coltivare la speranza. La speranza non è sinonimo di ottimismo. L’ottimismo è una virtù americana. Il mito americano dice che il bene prevale sempre sul male, che i buoni vincono sempre, e più prima che poi. Gli ottimisti credono che le vittorie siano a basso costo, che tutte le difficoltà si risolvano prima o poi.
La speranza è molto diversa. La speranza afferma che alla fine il bene trionfa sul male… ma non sempre. E che le vittorie spesso arrivano a costi altissimi, e che per vincere, molti pagheranno un carissimo prezzo. Con le parole di Arthur Falls, attivista afroamericano per i diritti civili e membro del Chicago Catholic Worker negli anni ’60, che alla domanda su cosa gli desse speranza nella lotta per la giustizia rispose: ”Quando ti adoperi per la giustizia, non sempre perdi”.
Non sempre perdi. Questa è la speranza cristiana. La speranza cristiana si fonda sulla resurrezione. La resurrezione non fu la salvezza estrema di Gesù, la salvezza da una morte ormai prossima o a un passo dalla tragedia. Gesù morì, come troppo spesso muoiono le donne trans di colore, come troppo spesso muoiono le persone LGBTQI richiedenti asilo ed immigrati clandestini. La resurrezione è ciò che Dio può far nascere dalla tragedia, dal fallimento, dalla morte. Questa è la fede che ci sostiene in questo lento, frustrante, e anche pericoloso impegno per un mondo più giusto e una chiesa più santa. Questo è ciò che ci dà speranza.
Quindi, fratelli e sorelle: è bello essere qui, perché quando ci si adopera per la giustizia, abbiamo la rassicurazione di Cristo che non sempre perderemo, ma che alla fine trionferemo.
(1) Questa espressione è il titolo di un film drammatico americano del 1986. Significa che gli individui appartenenti a categorie ostracizzate e denigrate devono essere state create da un dio minore, non dal Dio creatore dei privilegiati e socialmente dominanti.
(2) Gustavo Gutiérrez, “El Dios de la vida,” 40.
(3) Juan Luis Segundo, Our Idea of God, trans. John Drury (Maryknoll, NY: Orbis, 1974) 8.
(4). Vedere il Catechismo della Chiesa Cattolica #2113: ”L’idolatria non si riferisce solo al culto pagano. Rimane una costante tentazione della fede. Consiste nel divinizzare ciò che non è Dio. L’idolatria rifiuta il dominio esclusivo di Dio; è pertanto incompatibile con la comunione con Dio”.
* Padre Bryan N. Massingale insegna teologia all’Università Fordham di New York (Stati Uniti).
Testo originale: The Challenge of Idolatry for LGBTI Ministry