Umiliati perchè differenti. Essere “froci” nella Spagna franchista
Articolo di Jesus Ruiz Mantilla tratto dal sito di El Pais (Spagna), del 12 maggio 2013, liberamente tradotto da Dino
La vita di circa 4 o 5000 omosessuali rimase segnata, nella Spagna franchista dalla Legge di pericolosità sociale. Questa è la storia di persone che hanno pagato col carcere e la repressione il loro orientamento sessuale.
Questi tempi odierni, in cui tutti siamo più uguali di fronte alla legge rispetto a prima, tempi in cui una coppia omosessuale può sposarsi senza complicazioni, dedicarsi ai propri affari, ricevere promozioni nella maggior parte dei lavori pur vivendo apertamente la propria condizione, partecipare a feste e manifestazioni di strada, portare alta la bandiera dei propri quartieri, divertirsi e riaffermare la propria identità sessuale in un corteo che raggruppa centinaia di migliaia di persone, questi tempi, si diceva, non sono come quelli da poco passati, nei quali un semplice gesto effeminato fatto in pubblico poteve costare il carcere, o una parola detta con tono querulo poteva costare l’umiliazione più crudele.
Questi tempi in cui due uomini o due donne possono camminare mano nella mano e baciarsi per strada, allevare di figli, condividere serate e pranzi di Natale con le famiglie del partner, non sono come quelli in cui per cercare un incontro ci si doveva addentrare in posti lugubri e bui, o all’uscita di un cinema c’era ad aspettarti la polizia segreta per metterti in cella, farti comparire davanti ad un giudice che ti considerava un malato, ti prendeva e ti metteva in carcere per sei mesi applicando la legge di pericolosità sociale – in vigore dal 1955! anche se gli articoli riguardanti l’omosessualità sono stati abrogati nel 1979 – o in precedenza quella riguardante i vagabondi e i malfattori.
Questo era il modo di dare una punizione e di curare quello che dal regime di Franco veniva considerato una piaga, e questo periodo si protrasse anche nelle prime fasi della democrazia e segnò la vita di un numero di 4 o 5.000 persone in questa condizione, condannate a prigioni di sinistra memoria come Badajoz, Fuerteventura, Nanclares de la Oca, Huelva, il carcere Modello di Barcellona o Carabanchel, dove andavano a finire la maggior parte degli omosessuali arrestati senza alcun motivo, ma soltanto per il repressivo capriccio imperante, e che venivano poi suddivisi in attivi (destinati a Huelva) e passivi (destinati a Badajoz). Atrocità oggi testimoniate in quei luoghi con manifesti commemorativi e denunciate da associazioni come quella degli Ex Detenuti Sociali, che aiuta le vittime a ricevere indennizzi dallo Stato.
Storie che sono state raccontate in libri come “Retata di violette”, di Arturo Arnalte, o che stanno per vedere la luce -se i finanziamenti consentiranno di portarli a termine – o in documentari come “Invertiti, la legge contro il desiderio” di Martin Costa. Esseri umani che hanno lasciato la loro innocenza, il loro senso della vita e la loro dignità tra le pareti di quelle celle per il solo fatto di non nascondere la propria condizione, di rifiutare di travestirsi dell’apparente normalità dei loro corpi di uomini quando desideravano essere donne e cominciavano ad assumere ormoni, eroi di un progresso che oggi considera in modo molto più naturale l’identità sessuale nella società moderna, se facciamo il paragone con Paesi come la Francia, dove gli omosessuali vengono picchiati per strada dopo che il presidente Hollande ha annunciato l’approvazione del matrimonio omosessuale.
Ma è anche vero che in quei tempi questo nostro (qui in Spagna, ndr) atteggiamento non era molto diverso da quello del resto dell’Europa. Javier Ugarte, dottore in filosofia all’Università di Oviedo e studioso dell’argomento, fondatore della rivista Orientaciones, afferma che, anche nel resto del continente, le legislazioni erano altrettanto repressive. In realtà ci sono differenze. “In Europa l’omosessualità era affrontata come un problema psichiatrico; qui in Spagna invece, per l’influenza della Chiesa, essa si trasformava in una questione morale”. E, per il regime, anche sociale: “In Spagna si cercava di applicare una repressione di classe. Venivano penalizzati di più gli individui soli. Se erano sposati le sanzioni venivano mitigate a patto che ritornassero in famiglia”.
Antoni Ruiz i Saiz: “Con questo ci potete fare ciò che volete perchè è un finocchio”
Una mattina, all’età di 17 anni, Antoni Ruiz i Saiz si svegliò, decise di affrontare la sua vita con franchezza e confessò a dona Libertad, sua madre, di essere omosessuale. Venivano da una famiglia repubblicana a cui avevano inculcato una religione bigotta, cosicché la buona signora si spaventò e raccontò il fatto a sua sorella. La sorella a sua volta si scandalizzò e ne parlò con una suora appartenente alle Legionarie della Vergine degli Abbandonati. La suora fece la spia alla polizia e una mattina quattro agenti segreti andarono a prelevarli a casa loro a Xirivella, appena fuori Valencia.
La maledetta catena di paura, sconcerto e allarme finì con la chiara e intima confessione tra madre e figlio dentro il carcere. “Con gli anni sono riuscito a perdonarla. Era una donna un po’ limitata, mio padre morì quando io avevo sette anni, non avevamo mezzi per sopravvivere e aveva pensato che se me ne fossi andato sarebbe rimasta senza sussistenza”, confessa oggi Antoni nello stesso soggiorno della casa in cui a suo tempo aveva parlato con lei. Oggi ci vive con David, suo marito. Ma questo viaggio, dalla prima uscita dalla sua casa verso varie carceri fino ai giorni felici insieme al suo sposo, è stato molto lungo ed ebbe inizio quando Franco era già morto. Era l’anno 1976. Ma la repressione era ormai alla fine.
Antoni lavorava come pasticcere. Non guadagnava male, ma il lavoro finì non appena un poliziotto lo mise in una cella piena di camionisti in sciopero dicendo: “Con questo potete farci quello che vi pare perchè è un finocchio”. “Qualsiasi omosessuale catturato sapeva ciò che lo aspettava là dentro”, ricorda Antoni. Inoltre questo poliziotto provava gusto nell’accusarmi. “Disse che mi aveva visto molte volte alla stazione degli autobus”. Il giudice fu più delicato. “Mi disse che mi avrebbero mandato in una specie di collegio”.
Ma il collegio non era altro che le carceri di Carabenchel e Badajoz. Là trovò un prete caritatevole che avvertì la sua famiglia: “Sapete davvero dove sta vostro figlio…?”. Venne scarcerato in breve tempo ma lo obbligarono a dimorare a 100 Km dalla sua casa, esiliato a Dénia. Finito sulla strada, si trasformò in un appestato. Non ritrovò il suo lavoro e non ne trovò uno nuovo. Decise di prostituirsi. “Un poliziotto mi disse che nella calle del Mar si praticava tra uomini”. Conobbe persone molto influenti di Valencia, e tra di esse qualche dirigente di Falange, trovò protezione e quando si innamorò di un impiegato di banca decise di lasciare questa attività.
Poi arrivò il lavoro. “Sono risalito dal fondo ed ho deciso di svilupparmi come persona”. Cominciava a dimenticare quel periodo buio e a farsi carico delle sue conseguenze più intime. La democrazia correva come un levriero accanto a lui. O così credeva… Finché nel 1995, mentre cammina per la calle de Caballeros di Valencia, due agenti di polizia municipale lo fermano per un controllo, gli chiedono i documenti e, dopo aver controllato i suoi dati, uno dice all’altro: “Non c’è nulla, ma stai attento a lui, che è un finocchio”.
Antoni rimane sorpreso. “Scusi… cosa dice?”. Ed essi gli rispondono: “Se vuoi saperne di più, prenditi un avvocato”. I danni fatti dalla repressione sono arrivati fino a questo ambito dello Stato di diritto. Antoni trovò un difensore d’ufficio e combattè. “Non ci siamo fermati fino a che nel 1999 venne fatta la legge di protezione dei dati personali e con essa vennero cancellati gli archivi nei quali erano inseriti gli omosessuali schedati nell’epoca in cui era in vigore la legge di pericolosità sociale”. Il processo si tenne a Valencia. Il tribunale Superiore di Giustizia fece bruciare in pubblico gli archivi. “Fu come una festa popolare”, ricorda Antoni. Quel fatto fece sì che prendesse coscienza. Oggi è a capo dell’Associazione degli Ex detenuti Sociali, affinchè le vittime non siano dimenticate.
Rampova: “Questo figlio di puttana dev’essere messo in prigione!”
Francesc Olivier si presenta in una ventosa sera di primavera nei pressi di El Cabanyal, il quartiere di Valencia dove vive, e chiede un bicchiere di cognac. Nel reggerlo gli tremano le mani. Dalla sinistra sporgono le sue unghie lunghe e dipinte. E’ difficile indovinare il colore dei suoi occhi e la vivacità del suo sguardo, che sono nascosti dietro gli occhiali da sole. Lo si può incontrare solo di sera. Al mattino non c’è per nessuno: “Sto ancora prendendo ansiolitici”.
Francesc viene chiamato Rampova. E’ il suo nome d’arte, quello che ha adottato per i suoi spettacoli di varietà, che mescolano il rock duro con forte contenuto sociale e i balli piccanti. Per tutta la vita ha voluto essere artista.
Perché era attirato dall’ambiente dello spettacolo e perché non gli rimaneva altra soluzione da quando venne arrestato per la prima volta a 14 anni, un episodio che non ha dimenticato a tutt’oggi, a 56 anni: “Avevo avuto rapporti con ragazzi della mia età. Qui nel parco era una cosa molto comune. Ma quel giorno andai con un uomo sposato”. Un topo provocò l’allarme. “Lo vidi passare e mi misi a gridare come un matto”. Passava di lì la polizia e ci arrestò.
Francesc venne condotto in prigione e invece al partner non fecero nulla, ma non poté sfuggire all’umiliazione. Lo accompagnarono fino a casa e nel lasciarlo lì dissero a sua moglie: “Sappia che suo marito è stato con una checca”.
“Non mi importava” dice Rampova. “Io ero il finocchio del quartiere”. Nella sua casa di ambiente repubblicano non c’era nessun problema. “Mio padre diceva che era meglio avere un figlio come me che un figlio prete”. Ma ancora non sapeva quanto caro si dovesse pagare per la strada, nel 1971, questo modo di essere. Trascorse alcuni giorni in carcere e quando lo presentarono davanti al giudice questi esclamò: “Questo figlio di puttana deve essere messo in galera!”.
Entrando nel carcere Modello qualcuno lo avvertì: “Qui è meglio essere brutti, perché così si è invisibili”. Ma Rampova non poteva contare su questa fortuna. “A questa età non avevo nulla da invidiare a Greta Garbo”, dice. E questo non era conveniente se ti mettevano nel padiglione degli invertiti, come lo chiamavano. Lì cercavano di curarli con l’elettroshock. Di notte gli addetti ai controlli chiudevano un occhio e lasciavano passare i detenuti comuni. Allora arrivava il momento peggiore. Le violenze. “Nei trenta giorni che ho trascorso in quel luogo, non so quante volte sono stato violentato, io e altri.
C’erano persone bellissime, che assomigliavano già a David Bowie prima ancora che David Bowie esistesse”. Il cerchio di repressione era perfetto. Arresto in strada, giudice che ti biasimava e agenti che ti abbandonavano alle belve. Se non si veniva messi in riga con le buone, lo si faceva allora con le cattive.
Ma Rampova continuava ad essere se stesso. Quando fu scarcerato, un’amica lo avvertì: “Vattene dalla città perché appena ci sarà una retata sarai di nuovo messo in prigione”. Allora se ne andò a Barcellona. “A casa di mia zia, gemella di mia madre”. Lì si appassionò al cinema. “Imparai a distinguere tra cinefilia e cinefagia. Tra Ozores e la nouvelle vague”. Ma un giorno che si sedette accanto a una persona sbagliata nell’oscurità della sala, fu nuovamente arrestato.
“Sapevo quello che mi poteva succedere. Preferivo suicidarmi. Chiesi a mia zia delle lamette, riuscii a convincerla”. Ma si riscattò grazie all’amore. “Mi innamorai di un argentino e lui mi salvò la vita”. Non poté però evitare altre disgrazie. “Come la morte di Rosaura…”. Le botte, le umiliazioni, le violenze di gruppo venivano registrate negli atti ufficiali come suicidi.
Eusebio Valderrama: “Il cortile del carcere sembrava il giorno dell’orgoglio gay”
Cose della vita. Eusebio Valderrama dal soggiorno di casa sua vede la finestra della cella in cui trascorse la sua prima condanna nel carcere di Malaga. Oggi questo ballerino ha una via nella città dove nacque che è intitolata a suo nome. E non c’è da meravigliarsi.
La sua opera principale è la vita che ha vissuto e vive oggi come artista della danza, ora in pensione, e come scrittore in bilico tra la memoria e la poesia.
Se il genio di Manuel Chavez Nogales vivesse ancora, sarebbe indeciso tra la storia del maestro Juan Martinez, quel ballerino che venne arrestato durante la rivoluzione russa, e che raccontò così com’era, e la storia di Valderrama, che visse la repressione franchista, fu descritto come uno dei geni del secolo XX e danzò davanti allo Scià di Persia e a Saddam Hussein.
“Sono nato nel Perché. In collegio mi piaceva giocare con le bambine. A quattro anni ho sentito il richiamo delle nacchere quando il mio Pepe le ha toccate al piano di sopra ed io mi sono indissolubilmente legato a lui. Da allora abbiamo passato insieme tutta la vita”. Scoppiò la guerra e la fanciullezza se ne volò via. “Non dimenticherò mai le file di morti, alcuni con qualche parte del corpo tagliata e infilata dentro la bocca”. La morte era una cosa seria. E anche la vita, così come lui la sentiva. Persuaso della sua condizione (omosessuale), andò a Barcellona. “Lì tutto era più lecito”.
Una volta tornò dalle vacanze a Malaga e lo arrestarono. “Io e Pepe ci eravamo seduti insieme su una sedia e per questo mi misero in prigione. Lui invece riuscì a scappare”. Eusebio pagò con 90 giorni e varie percosse, ma non denunciò il suo amico. La retata successiva avvenne a Madrid. Stava camminando da solo per la Gran Via e indossava una giacca blu con bottoni dorati. Un poliziotto richiamò la sua attenzione: “Dove vai camminando come un finocchio per la strada vestito in questo modo?”.
A Carabanchel… “Lì obbligavano me e altri gay a pulire la cella dei detenuti politici. Il cortile di quel carcere sembrava il Giorno dell’Orgoglio Gay”. Andò in esilio. Visse in Francia, in Italia, in Grecia.
Di ogni paese conserva tanti aneddoti legati al suo spettacolo di ballo spagnolo. “Ad Atene dei signori molto gentili ci offrirono champagne. Uno disse: <Brindiamo per le nozze di suo figlio>. <Chi è suo figlio?> chiesi io. <Mio figlio è il principe e domani si sposa> rispose il padre del futuro re”.
In Francia un pittore andaluso richiese la sua partecipazione per la sua festa di compleanno. “Durante lo spettacolo ci dipinse. Quando vedemmo il disegno, non ci piacque. “Basta, che orrore!” gli dicemmo. Il pittore si chiamava Pablo Picasso. “Ma a quel tempo, chi sapeva chi era Picasso!”.
Silvia: “Continuai a prostituirmi finché non venni arrestata”
Se a Las Palmas di Gran Canaria avessero chiesto separatamente ai tre gemelli Domingo, Juan e Alfonso, quando erano ancora bambini, cosa avrebbero voluto fare da grandi, essi avrebbero risposto: l’avvocato, il medico, l’artista… Ma avrebbero anche dichiarato all’unisono quello che alla fine sono riusciti a raggiungere: essere donne.
Le loro storie sono simili. E sono così dolorose, così difficili, che ci si stupisce. Nascere uomo negli anni quaranta o cinquanta e desiderare essere donna aveva un costo elevato. La cocciutaggine veniva pagata col carcere, l’esclusione sociale, le umiliazioni da sopportare a testa alta e la repressione. Ma proprio per la loro cocciutaggine, sono riusciti nel loro intento.
Non hanno ceduto e grazie a terapie clandestine con ormoni, al sogno di cambiare la volontà alla natura e anche al Dio in cui spesso credevano, ci sono riusciti. Quello che agli occhi della società sembrava una debolezza, con gli anni è giusto giudicarlo per quello che realmente è: un atto eroico.
In casa di Domingo a nessuno entrava in testa che fosse venuto fuori così effeminato. Né a sua madre né ai suoi fratelli. In collegio era buono e studioso. “Se fossi rimasto, avrei studiato medicina o legge, ma andai a Barcellona perché volevo essere donna” afferma Silvia Reyes.
Lì cercò di trovare impiego in un albergo e cominciò a sottoporsi a terapie ormonali. Ma nel veder il suo aspetto, era già travestito, non gli diedero lavoro. “Mi prostituii finché non mi arrestarono”. Dopo la scarcerazione fece spettacoli di strip tease, soprattutto in Svizzera. Oggi si guarda indietro serena e senza rimpianto, stando bene nella sua pelle, in piena e splendida maturità, nonostante la durezza del percorso fatto.
Invece Trinidad, insieme a sua sorella Barbara, a Granada non trovava alcun ostacolo, dato che sua madre lasciava che si vestissero con i suoi abiti quando ancora si chiamavano Juan e Alfonso. Molto presto cominciarono ad assumere ormoni e portavano il loro travestitismo in modo così elegante che per strada non ricevevano quasi nessuna umiliazione se non qualche risatina.
Provarono comunque anche il carcere. “Lì trovammo dei travestiti così civettuoli che si dipingevano le labbra col lucido da scarpe”, dice. E non c’è niente che può fermare la forza che ti ritrovi dentro quando sei determinato.
“Decidere di esser donna è una cosa molto seria. Non serve mettersi dei vestiti adatti e camminare con i tacchi alti. Una signorina deve avere buone maniere, che sia operata oppure no”, afferma Trini nella sua casa di Granada, piena di ritratti suoi e di sua sorella Barbara, del periodo in cui diedero vita alle Dolly Sister. “Ho tenuto spettacoli anche a Las Vegas”, dice.
Barbara è morta giovane. Ma prima trascorsero anche un periodo nel carcere di Huelva dopo alcuni pestaggi nelle celle. “In cortile ci palpeggiavano, quando entravamo scoppiava un putiferio tra i detenuti comuni. C’era di tutto, criminali, terroristi, gente con facce poco raccomandabili…”.
All’uscita, l’esilio. Andarono a Mallorca. Lì potevano essere ciò che volevano. “A Granada fummo anche picchiate con violenza. Quando ci rinfacciavano il nostro comportamento, dicevamo: <Anche Federico Garcia Lorca era omosessuale, e allora?>”.
Trinidad è tornata alla sua terra. Un’emorragia cerebrale la costrinse a lasciare il lavoro e a tornare alla sua famiglia e a far la vecchia zia. Sono lontani i giorni in cui venivano fermate dai cellulari della polizia ed erano arrestate.
Oggi si sente una signora molto rispettabile e ricorda l’infanzia, quando Juan e Alfonso uscivano in strada travestiti da bambini con i calzoni corti, quando il loro vero abbigliamento avrebbe dovuto essere quello con i vestiti che prendevano in prestito dalla loro madre, senza che essa glieli abbia mai negati.
Testo originale: Humillados por diferentes