‘Baroni di Razza’. La solerte riabilitazione dei docenti razzisti
Articolo del 22 gennaio 2013 di Michele Sarfatti pubblicato su Il Corriere della Sera
Il documento del luglio 1938 «Il fascismo e i problemi della razza», noto anche come Manifesto del razzismo fascista, ebbe dieci firmatari, tutti universitari. I loro nomi sono noti: Lino Businco, Lidio Cipriani, Arturo Donaggio, Leone Franzì, Guido Landra, Nicola Pende, Marcello Ricci, Franco Savorgnan, Sabato Visco, Edoardo Zavattari. Verrebbe spontaneo ritenere che, cessata la Seconda guerra mondiale, sconfitto il fascismo, debellato l’occupante nazista, abrogata la legislazione antiebraica e razzista, quei dieci studiosi siano stati, se non puniti, almeno espulsi, rimossi, allontanati dal sistema educativo italiano.
Barbara Raggi ha scritto il saggio “Baroni di razza. Come l’università italiana ha riabilitato gli esecutori delle leggi razziali”, (Editori Internazionali Riuniti, pp. 216, € 22,90) per comprovare e ricordarci che così non è stato. Che quei dieci e molti altri protagonisti italiani di vario livello dell’ideologia e della propaganda antisemita e razzista sono rimasti o rapidamente rientrati al loro posto di insegnamento e di ricerca, o comunque sono stati assolti, amnistiati, perdonati, restituiti a una incredibile condizione di sostanziale innocenza.
È accaduto che, nei singoli procedimenti di epurazione (prima e indipendentemente dall’amnistia generalizzata), di uno si tacquero o si declassarono gli articoli pubblicati sulla rivista «La difesa della razza», di un altro si omise la partecipazione all’Ufficio razza del ministero della Cultura popolare. Un terzo venne prosciolto già in istruttoria, senza che ce ne siano pervenute le motivazioni. Di altri si evidenziarono (a difesa) i soccorsi dati ad alcuni ebrei al momento della deportazione, come se l’antisemitismo non omicida cessasse di essere un delitto, un reato, una pugnalata inferta all’intera società.
Di tutti si negava o si taceva l’azione e/o l’intenzione razzista, sì che, verso la fine dell’illustrazione delle vicende individuali, così Barbara Raggi sarcasticamente sintetizza la situazione: «I docenti universitari italiani sono stati gli unici intellettuali europei ad aver manifestato il proprio dissenso contro le politiche antiebraiche, praticate negli Stati di cui erano cittadini, accettando di lavorare negli organismi che le promuovevano».
L’autrice si interroga anche su chi furono i riabilitatori di questi antisemiti. Alcuni erano fascisti e antisemiti come gli imputati. E difendevano loro per difendere se stessi. Molti erano mossi dallo spirito di casta: non volevano che questioni «esterne» all’università prevalessero sulle regole eterne del corpo accademico. Tra questi ultimi vi erano anche persone nettamente antifasciste, affette — scrive Raggi — da un vero e proprio «strabismo corporativo». Un professore (Cotronei) ammonì i colleghi della facoltà di Scienze della Sapienza che «un nostro voto di conferma al prof. Zavattari viene inevitabilmente ad avere il significato di un atto di solidarietà; significa in altre parole che noi non disapproviamo particolarmente dottrine della natura di quelle sopra ricordate», ma la discussione del Consiglio di facoltà si concluse con 11 voti a favore dello zoologo razzista, 7 contrari e una scheda bianca.
Tutto ciò ovviamente si innestò sulle strategie di difesa tecnica degli imputati e l’insieme produsse un altissimo risultato di permanenze o rapidi riaccoglimenti dei docenti antisemiti nel sistema educativo superiore (risultato che inoltre fu ben superiore a quello relativo al reingresso in servizio dei professori ebrei espulsi nel 1938, come è stato ricostruito da Roberto Finzi e altri storici). E questi pieni riaccoglimenti furono (e spesso sono tuttora) accompagnati da curricula e biografie mutile, colme di omissioni: come se essi non avessero mai agito con la testa e con la penna contro ebrei e neri