La storia invisibile: le lesbiche e l’Olocausto
Articolo di Amy Elman tratto dalla rivista ‘Entiendes’ (2008), liberamente tradotto da Eliana
Negli ultimi anni e parallelamente all’ottenimento di diritti da parte della comunità gay, è stato fatto uno sforzo per recuperare la memoria delle persecuzioni naziste nei confronti degli omosessuali. Paradossalmente questo ricordare, necessario e giusto, ha contribuito a perpetuare l’invisibilità delle lesbiche.
Storicamente, la supposizione dell’eterosessualità riguardo alle donne e la persecuzione ed il controllo esercitati sopra la loro sessualità, sono state così forti che le azioni esplicite sulle donne che dissentivano, potevano essere addirittura non necessarie.
Nella realtà ciò non aveva nessun senso, perché quelle che erano molto facili da individuare erano proprio le donne. I nazisti credevano più nel potere dell’intimidazione che in quello della legislazione. I luoghi in cui si riunivano le lesbiche furono chiusi e loro obbligate ad assomigliare all’ideale di femminilità nazista. La mistificazione fu necessaria per sopravvivere. Dopo il 1933 molte lesbiche si sposarono per evitare la pressione sociale esercitata sulle donne nubili.
Essere donna però era pericoloso durante il regime nazista. Qualsiasi donna poteva essere arrestata ed imprigionata per quasi qualsiasi cosa. Come succede ancora, qualsiasi donna indipendente può essere additata come lesbica. Il pericolo non erano le lesbiche, ma le donne, il sesso delle donne, l’indipendenza delle donne. Qualsiasi marito poteva denunciare la propria moglie per chè lesbica, prostituta, o perché non attendeva ai propri doveri di buona tedesca.
Qualsiasi donna non sposata, qualunque donna che non avesse figli, qualsiasi donna che fosse promiscua o solo lo sembrasse, era sospettata, se non già colpevole. Il crimine era essere donna in una società misogina, essere lesbica era un’aggravante, un qualcosa in più.
Le donne, le lesbiche, erano identificate nei campi di concentramento con il triangolo nero delle “asociali”, il colore che i nazisti assegnavano agli individui socialmente disturbati, e in questa categoria rientrava qualsiasi donna che si allontanasse dalla norma. Il suo crimine era la sua stessa esistenza. Il suo non era un crimine identificabile come quello dei gay.
Poco dopo che a Berlino fu deciso di erigere un monumento agli omosessuali vittime del nazismo, cominciarono a manifestarsi i dissensi nella comunità gay. Si discuteva sul fatto che le lesbiche dovessero essere incluse fra le vittime. Mentre alcuni facevano notare che le leggi contro l’omosessualità furono applicate specificamente solo contro i gay, le donne sottolineavano che le lesbiche avevano vissuto nel terrore.
Il problema è che le lesbiche a volte arrivano a sconvolgere quello che la maggior parte delle persone pensa sull’omosessualità. Per dirlo semplicemente, non tutti gli omosessuali sono uomini e questo non è sempre stato chiaro. Per esempio, nel Museo dell’Olocausto che si trova negli Stati Uniti, le lesbiche non esistono se non legate ai gay. Nell’Enciclopedia che si può consultare in quel luogo, la parola “lesbica” rimanda puntualmente alla parola gay. Il triangolo rosa ed il paragrafo 175 della legge anti-omosessualità in Germania appaiono sullo schermo, assumendo che il triangolo e la legge facessero riferimento alle lesbiche.
Anche gli storici hanno rifiutato di comprendere la realtà delle lesbiche nei campi e, molto spesso spiegano le relazioni lesbiche che lì si vivevano come risultato della mancanza di uomini: “come in molte prigioni, nei campi di concentramento donne che in qualsiasi altra situazione avrebbero rifiutato comportamenti omosessuali, lì potevano gradualmente scivolare verso l’accettazione di suddette pratiche”.
Questa spiegazione è così ricorrente che le lesbiche stesse hanno finito per crederci. Annalise W. è una sopravvissuta al campo per donne di Ravenbruck e scrive: “… c’erano moltissime lesbiche lì, però non so se eravamo così da prima o fu il fatto di essere rinchiuse lì dentro che ci rese tali”.
Se concepissimo l’eterosessualità come risultato della sperimentazione di una situazione disperata, il nostro ricordo di Anna Frank sarebbe tremendamente alterato. Dopo tutto lei scrisse nel suo diario che, prima di vivere rinchiusa, era spontaneamente attratta da ragazze. Questa parte del diario è stata convenientemente ignorata, però sarebbe conveniente ricordarla in tutto lo spazio che occupa.
“Avevo già provato questo tipo di sentimenti incoscientemente, prima di stare qui, perché ricordo che una volta, mentre dormivo con un’amica, provai il forte desiderio di baciarla e lo feci. Ero terribilmente incuriosita dal suo corpo. Però lei lo manteneva sempre coperto e ben nascosto alla mia vista.
Le chiesi, come prova d’amicizia, di toccarci l’un l’altra il seno. Lei non volle. Vado in estasi ogni volta che vedo una donna nuda, come Venere per esempio. Mi sembra così meraviglioso e così prezioso che faccio fatica a trattenere le lacrime. Magari avessi una fidanzata!”. Non c’era una fidanzata per Anna nel suo nascondiglio. Al suo posto c’era il suo migliore amico e subito adorato Peter Van Daan.
Il giorno dopo aver scritto quello che è stato riportato prima, Ana confessava: “il mio bisogno di parlare con qualcuno è diventato tanto grande che in qualche modo mi sono convinta di aver scelto Peter”; la scelta di questa compagnia la disgustava all’inizio: “quando sono a letto e penso a questa situazione, non la trovo affatto stimolante, e l’idea di dover pregare Peter, mi pare semplicemente ripugnante”.
Nonostante tutto ciò, la relazione di Ana Frank con Peter non è stata mai minimizzata per essere considerata tipica dell’adolescenza o causata dalle circostanze oppure dalla mancanza di compagnia femminile. Anna Frank visse e morì in un mondo simile al nostro, un mondo che crede che lei era (e doveva essere) eterosessuale.
Testo originale: Las lesbianas y el holocausto