A Belgrado la strada per le persone gay è ancora lunga
Articolo di Julien Descals tratto dal mensile Têtu (Francia) del maggio 2014, liberamente tradotto da Marco Galvagno
Mentre la stagione dei Gay Pride inizia un po dappertutto, Têtu si è recato a Belgrado, dove la marcia del Gay Pride sono state proibite nel 2010, nonostante la speranza di una prossima integrazione nell’Unione Europea.
Nelle stanze oscure dei Balcani il film serbo La Parade raccontava la storia di un ex militare omofobo che, per amore della sua fidanzata, deve garantire la sicurezza al Gay Pride di Belgrado. Nonostante il successo del film, il Gay Pride non ha mai potuto sfilare per le strade della capitale serba.
Da tre anni il governo serbo vieta le manifestazioni per ragioni di sicurezza, con l’ossessione di rivivere la guerriglia urbana dell’autunno 2010: lancio di bottiglie molotov nelle strade del centro, saccheggio delle sedi del Partito Democratico, attacco dei locali della tv di stato; circa seimila militanti di estrema destra e hooligan non si erano fermati davanti a nessuna violenza pur di trasformare il Gay Pride in una battaglia per le strade.
“Da allora in poi la minima intimidazione degli omofobi serve come pretesto per vietare il Gay Pride e priva la comunità LGBT dell’unica occasione che ha di rendersi visibile” deplora Milan Antonievic, coordinatore del Comitato dei giuristi per i diritti umani.
“Ogni anno è lo stesso imbroglio”, l’influentissima Chiesa ortodossa per voce del suo patriarca Irnei insorge contro “la parata tragicomica dell’odio che getta una pesante ombra morale su Belgrado”; i gruppi nazionalisti minacciano contromanifestazioni e a volte fanno riferimento alle leggi russe contro la propaganda gay. E il ministero dell’interno cede alle pressioni, la letargia dell’attuale governo rafforza l’impunità degli omofobi.
Persino sulle mura della fortezza di Kalemegdan, tuttora luogo di incontro degli innamorati o nelle strade del centro o nelle terrazze del quartiere alla moda di Barcol, mostrare i propri sentimenti se si è gay viene visto come una provocazione.
“Siamo a Belgrado e se una coppia gay si prende per mano o si bacia, le reazioni ostili non tarderanno a manifestarsi”, testimonia Predrag Azdejkovic, giornalista fondatore dell’unica rivista gay del paese, chiamata ironicamente Optimist. Se i locali gay sono cresciuti negli ultimi anni, nessuno ha il coraggio di esporre la bandiera arcobaleno.
E per trovare il Klub Apartman, la più vecchia discoteca gay della città, basta seguire le auto della polizia che stazionano incessantemente davanti al locale. Relegata all’ultimo piano di un edificio scalcinato vicino alla Sava, lo stabilimento gode di una costante presenza della polizia sia fuori che dentro.
Anche se le violenze diminuiscono, le strade intorno al locale spesso si trasformano in una vera e propria trappola. Certe sere ogni pretesto è valido per gli omofobi che vengono in gruppo a “menare i froci”, come ci racconta Predrag Azdejkovic.
Questi pestaggi avvengono all’alba: “Due anni fa ci è mancato poco che venissi aggredito, uscivo dal Plastic, un’altra discoteca famosa della vita belgradese, stavo chiamando un taxi quando un tipo ha urlato: ‘Facciamo uscire fuori quella checca che l’ammazzo’”.
Fortunatamente un altro cliente del locale, che era con me, si è messo in mezzo per consentirmi di rifugiarmi nel taxi, però il mio aggressore e i suoi amici si sono scagliati contro di lui e l’hanno malmenato mentre io chiamavo la polizia.
L’episodio ha rafforzato l’avversione di Adrik e del suo compagno Novak contro un nuovo Gay Pride in città. Ogni autunno, quando alcuni si preparano a sfilare, il clima di Belgrado è degno di una guerra civile. Gli slogan omofobici fioriscono sui muri, non si osa più uscire di casa, si sta sul chi vive.
“Era più facile vivere sotto Milosevic (presidente dal 1989 al 2000 e accusato di essere connivente con i massacri dell’esercito serbo avvenuti in Bosnia), in quel momento nessuno faceva attenzione a noi”, rimpiange Novak. Questo trentenne è dell’idea che “per vivere felici bisogna stersene nascosti”.
Non ha mai fatto coming out con i suoi famigliari. “Certo, a 35 anni, senza famiglia, non ho mai presentato loro nessuna fidanzata, forse lo immaginano, ma è meglio non dire nulla.”
“Bisogna capire che non si partecipa a un Gay Pride a Belgrado come lo si farebbe a Berlino” spiega Milan Djuric dell’associazione Gay Ten, i cui uffici diventano a volte un rifugio temporaneo per gli adolescenti gay cacciati di casa.
“Qui sfilare al Gay Pride vuol dire mettersi in pericolo anche a livello fisico, rischiare di essere discriminato sul lavoro, molestato o malmenato”. Tra i gay il trauma del Gay Pride del 2010 è ancora ben presente.
L’organizzazione del primo Pride era stata lunga, ma è durato solo qualche minuto ed è stato ribattezzato “la parata del massacro” perché in quella occasione i gruppuscoli di estrema destra scatenarono delle rivolte che mescolavano omofobia e nazionalismo.
Per loro essere gay vuol dire sostenere i valori occidentali e mettere in pericolo i valori tradizionali serbi. “Insomma, essere gay è essere antiserbi”, riassume Viktor Vitlojevic, studente d’arte drammatica all’università e militante LGBT.
Viktor ha scelto di fare coming out da quando era ragazzo, dopo essersi fatto prendere in trappola su una chat di incontri su internet da un falso amante. Ne è uscito malmenato e terrorizzato dopo aver subito minacce: il tipo gli aveva addirittura puntato una pistola alla tempia.
“Quando sono tornato a casa, mi sono confidato a mia madre che, per confortarmi, mi ha cacciato di casa. Mi sono rifugiato da mio padre, che ogni settimana mi chiedeva se avessi cambiato idea come se si trattasse di un semplice cambiamento di umore. È stata dura. Ma oggi mi sostengono e sono addirittura favorevoli al matrimonio dei gay”.
Al liceo gli insulti erano frequentissimi per la maggior parte delle persone e anche per i giovani “essere frocio vuol dire avere l’AIDS. Non viene fatto nessun lavoro di sensibilizzazione su questo tema da parte degli insegnanti, non fa parte dei programmi” dice rammaricandosi. In uno studio condotto nel 2011 dal Comitato di Helsinki dei diritti dell’uomo è risultato che il 70% dei liceali serbi era omofobo e per il 41% l’omosessualità era una vera e propria malattia.
All’incrocio di Drava e Sava la marcia verso l’uguaglianza è ancora molto lunga, ma vi sono dei timidi progressi. Dalla parata del 2010 i gay osano confidarsi di più con parenti ed amici. I bar gay friendly sono sempre più numerosi e i ragazzi giovani sembrano più aperti dei loro genitori, ripete Lazar Pavlovic, presidente della principale associazione di difesa dei diritti dei gay.
A poco a poco anche le istituzioni migliorano; le aggressioni che hanno come motivo l’orientamento sessuale vengono punite con la dicitura “odio” e l’estate scorsa l’Assemblea nazionale ha dibattuto per la prima volta il tema dei diritti per le coppie gay. Non si parla ancora di unioni civili, ma del semplice diritto di ereditare i beni del proprio compagno defunto e del diritto ad assistere il proprio partner malato in ospedale.
Un altro miglioramento per le associazioni di difesa dei diritti dei gay va visto nella crescente collaborazione con le forze dell’ordine, grazie a seminari specifici che hanno sensibilizzat i polizioti sulle problematiche dei gay e dei transgender.
Fino a cinque anni fa le forze dell’ordine non intervenivano in caso di violenza omofobica o rimandavano a casa aggressore e aggredito. Oggi le testimonianze delle vittime vengono ascoltate e le denunce sono aumentate del 30 % negli ultimi anni. Di fronte alle avversità l’associazione GSA, che aveva tentato d’organizzare il Gay Pride del 2010, preferisce concentrarsi sulle lotte legali nei tribunali.
In tre anni ha intentato una ventina di processi per discriminazione e a poco a poco sta ottenendo vittorie simboliche, come nel 2012 quando la Corte d’appello di Novi Sad, seconda città del paese, ha dato ragione a un lavoratore maltrattato a causa del suo orientamento sessuale. Lo stesso anno la Corte costituzionale ha riconosciuto che l’annullamento del Gay Pride del 2009 era incostituzionale.
Due anni prima, il deputato Dragan Markovic era stato pizzicato dalla giustizia per avere definito l’omosessualità una malattia, prima volta per un uomo politico serbo; questo è servito di esempio. Da allora in poi gli uomini politici tengono a freno la lingua, afferma compiaciuto Lazar Pavlovic.
Dato che le violenze omofobiche si nutrono di discorsi politici, nel Paese candidato all’Unione Europea (spera di diventarne il ventinovesimo paese nel 2020) il discorso è diventato sempre più politicizzato. Non che l’Europa sia stata molto interventista dopo il divieto dell’ultimo Gay Pride; Bruxelles si è limitata a un laconico comunicato in cui invitava i Paesi candidati ad adottare valori come la libertà di riunione e di espressione; semplici richiami, ma senza azioni né sanzioni legali per il momento.
Questo autunno un gruppo di attivisti LGBT ritenterà di organizzare un avvenimento che assomigli ad un vero e proprio Gay Pride, con il rischio di vederlo annullare all’ultimo momento come ogni anno.
Nel settembre 2013, in mancanza di meglio, un centinaio di attivisti aveva improvvisato di notte un corteo che raggiunse il palazzo del Parlamento per collocarvi una bandiera arcobaleno. È stata una misera consolazione per i gay e lesbiche serbi, che fanno ancora fatica ad uscire dall’ombra.