Le lesbiche e il coming out, che fare? Una teologa cattolica risponde
Riflessioni della teologa Mary E. Hunt* pubblicate sul sito Catholic Lesbians.org (Stati Uniti), liberamente tradotte da Innocenzo
Probabilmente il più comune argomento di discussione tra le lesbiche è il “coming out” con i genitori e i fratelli e le sorelle. Le domande sono sempre le stesse: “lo hai detto alla tua famiglia”, “come hanno reagito”, e “lo rifaresti”?
Nel mio caso le risposte sono “Sì. Scrivo con le informazioni che ho ricevuto da molte di voi e anche da molte persone che mi hanno chiesto consiglio perchè hanno un sincero desiderio di fare la cosa giusta. Io comincio sempre col dire che probabilmente non c’è una risposta giusta, e non c’è mai il momento “buono”.
Molte di noi hanno ballato a lungo e intensamente la canzone “We are family”, felici del fatto che le nostre famiglie che abbiamo scelto ci danno il benvenuto, anche se le nostre famiglie di nascita non ci comprendono o non ci accettano.
Indipendentemente da come ci sentiamo accettate nelle nostre famiglie che abbiamo scelto, sospetto che la maggior parte di noi voglia costruire e/o mantenere buone relazioni con le nostre famiglie di origine. Loro, dopo tutto, sono le persone che ci hanno conosciuto più a lungo e a volte meglio. Loro sono le persone che ci instillano valori, ci danno protezione e forniscono la continuità con le generazioni precedenti.
Probabilmente il più comune argomento di discussione tra le lesbiche è il “coming out” con i genitori e i fratelli e le sorelle. Le domande sono sempre le stesse: “lo hai detto alla tua famiglia”, “come hanno reagito”, e “lo rifaresti”? Nel mio caso le risposte sono “sì”, “in vari modi” e “sì”.
Scrivo con le informazioni che ho ricevuto da molte di voi e da molte persone che mi hanno chiesto consiglio perche hanno un sincero desiderio di fare la cosa giusta. Io comincio sempre col dire che probabilmente non c’è una risposta giusta, e non c’è mai il momento “buono”.
La nostra tradizione cattolica è orientata alla famiglia all’estremo. Ci viene insegnato che la famiglia è l’unità sociale di base, che le feste e gli eventi importanti sono condivisi prima e soprattutto con la famiglia, e che quando cresceremo noi formeremo le nostre proprie famiglie. Il nostro condizionamento come donne ci mette sulle spalle un fardello supplementare dal momento che ci si aspetta che noi saremo coloro che forniranno il nutrimento per far crescere la famiglia.
Queste sono aspettative pesanti, e nessuna che io conosca le ha mai buttate via alla leggera. Hanno bisogno di essere sfidate perché noi possiamo scegliere come vivere. Nondimeno, la maggior parte delle lesbiche cattoliche sembra tenere in grande considerazione la nozione di famiglia, se non i propri nuclei familiari. E’ per questo che facciamo incredibili sforzi per crearne di nuove.
Ma il coming out, almeno inizialmente tende ad essere una delle più grandi tensioni nelle relazioni familiari. Molte di noi hanno scoperto che ciò che ci era stato insegnato essere un amore incondizionato in realtà è abbastanza condizionato dopo tutto.
Così facciamo coming out oppure no, a seconda di quanto possiamo sopportare di perdere se la reazione fosse negativa; quanto guadagneremmo se la reazione fosse positiva.
La chiesa istituzionale ci fornisce ben poche risorse. Sospetto che la reazione comune di “parlare con il prete” che molte famiglie cattoliche, compresa la mia, intraprendono, sarà sempre meno comune man mano che verranno conosciute le preferenze sessuali di molti ecclesiastici. Ma dobbiamo ancora decidere se e come portare a termine questo delicato compito nel contesto della comunità di fede dalla quale proveniamo. Offro alcune riflessioni dal momento che condividiamo le nostre esperienze come “chiesa delle donne”.
Concordo con i “Genitori e Amici di Lesbiche e Gay” (“Parents and Friends of Lesbians and Gays”, PFLAG) che il coming out con genitori, fratelli e sorelle non è un dovere assoluto. E’ buono e necessario per alcune di noi. Ma le altre non dovrebbero essere spinte con i sensi di colpa da quelle di noi che sono venute allo scoperto a fare ciò che nel loro caso potrebbe essere insano. Non intendo incitare le persone a rimanere nascoste. Ma sono sempre più consapevole della diversità tra di noi e delle egualmente diverse reazioni che ci possiamo aspettare. Spingersi l’un l’altra ad agire in modi che potrebbero essere distruttivi non è di aiuto.
Due suggerimenti aiuteranno in tutto questo. Il primo è che quando i genitori cominciano ad usare un certo linguaggio potrebbero essere pronti a parlarne. “La parola L”, per esempio, può fare capolino nella conversazione senza alcuna ragione apparente.
O possono cominciare a discutere uno spettacolo che hanno visto di Phil Donahue o di Oprah Winfrey sugli “omosessuali”. Possono non esserne coscienti, ma qualcosa nel profondo di loro può celare delle domande. Il loro desiderio di parlare di ciò che hanno visto in televisione può essere il loro modo di dire “condividi con me”.
Quando vien loro detto, potrebbero comunque rispondere che dopo tutto non avrebbero voluto saperlo.
Ma molti ammetteranno che preferiscono avere una figlia lesbica che avere una figlia lesbica che mente. Inoltre, una volta che sanno, le conversazioni, comunque difficili, saranno almeno basate sulla realtà.
Il secondo suggerimento è che il momento di dirglielo è almeno cinque minuti prima che lo scoprano da soli, prima che qualcun altro decida di spifferarglielo. Questo ha provocato molto più rancore che il fatto di essere lesbica dal momento che molti, specialmente i genitori cattolici, considerano l’inganno semplicemente il primo passo verso l’omicidio.
Lo scenario più difficile, secondo la mia opinione, è cosa fare quando sono coinvolti dei bambini. Non mi sono mai sentita così impotente nel consigliare qualcuno come quando ho condiviso l’agonia di lesbiche che dovevano affrontare la perdita dei loro figli. In molti stati il coming out porterà a decisioni sfavorevoli riguardo alla custodia. Restare nascoste, specialmente durante una relazione, causa il soffocamento psichico che tutte abbiamo provato una volta o l’altra.
Dire a qualcuna di scegliere il minore tra due mali è offrire un misero consiglio in questa situazione. Ugualmente è inadeguato dire che lavoriamo a tempo pieno per modificare la nostra comprensione di ciò che è una famiglia amorevole, che stiamo cercando di cambiare le leggi e le interpretazioni delle leggi in modo che essere lesbica non significhi automaticamente la perdita della custodia. Questa è una risposta a lungo termine su un problema a corto termine.
Per il momento sembra non esserci una buona risposta. Ma c’è abbondanza di agonia, e abbondanza di introspezione… a cominciare con il capitolo conclusivo di Barbara Zanotti, “Una lettera ai miei figli”, in “Una fede propria” [1] .
Lo consiglio e spero in altri saggi come questo che ci aiuteranno a mettere fine a questa ingiustizia che appare intollerabile. Uno non ha che da guardare alle molte coppie lesbiche che stanno crescendo dei figli per vedere nuovi modelli di famiglia. L’obiezione che ci sono anche famiglie lesbiche infelici è un paragone futile; dopo tutto, le famiglie eterosessuali non hanno il monopolio nel mercato della felicità.
Ascolto un’altra volta la canzone,”We are Family”, fremendo in sottofondo. Vorrei ballarla, per realizzarla. Ma c’è molto da fare per il nostro bene e per quello dei bambini. Devo saltare questo ballo e rifletterci.
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[1] A Faith of One’s Own: Explorations by Catholic Lesbians (The Crossing Press Feminist Series); edito da Barbara Zanotti; pubblicato da Trumansburg, New York, 1986 [N.d.T.]
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Maria E. Hunt, Ph.D., è una teologa femminista, co-fondatrice e co-direttrice del “Women’s Alliance for Teology, Etics and Ritual”. E’ una cattolica attiva nel movimento delle donne nella chiesa, si occupa di teologia e di etica, con particolare attenzione alle questioni inerenti la liberazione. Tra le sue numerose pubblicazioni vi sono articoli sul Journal of Feminist Studies in Religion, su America, sulla rivista cattolica di teologia Concilium. Vive a Silver Spring (Maryland, USA) con suo marito e sua figlia.
Testo originale: Dial-a-Theologian