La vacanza d’ottobre
Riflessioni del pastore Alessandro Falasca* pubblicate sul gruppo Facebook Un Universo in cammino – Una via spirituale UU il 21 ottobre 2018
Ottobre è da sempre un mese particolare per me. Per uno strano gioco del destino, molti dei grandi cambiamenti della mia vita sono accaduti sul finire di ottobre o nei primi di novembre: il cambio di facoltà, il militare, l’assunzione come statistico presso la PA, il cambio di lavoro, e soprattutto il fidanzamento con la donna che mi accompagna nell’avventura della vita, a cui ho chiesto di sposarmi, guarda caso, ad ottobre. Ed è così che ho potuto sperimentare una strana condizione, che ho ribattezzato “vacanza d’ottobre”, un bizzarro periodo in cui ti trovi ad attendere l’inizio di una nuova vita, senza avere un granché da fare, se non portare pazienza, mentre il mondo attorno ferve di attività. È un periodo proficuo per le grandi domande tipo “chi sono?” o “dove sto andando?”, di quelle a cui la religione dà volentieri il suo contributo. Anche questo ottobre è un periodo di transizione, di attesa rispetto ad un nuovo progetto di vita (quello cantautoriale), che potrebbe dare a breve dei frutti, ma non certo di vacanza, anzi di un’attività piuttosto febbrile. La “vacanza”, intesa come vuoto e distrazione, c’è metaforicamente nel mio percorso spirituale, saldo nella fede, ma come mai arido nell’offrire e nel cercare stimoli. Ho pensato, allora, ad un esperimento per ravvivare questo momento: ripercorrere i mesi di ottobre del mio pastorato, rileggerne i sermoni per riscoprire quali domande mi interrogavano allora e capire se quelle domande, così come i tentativi di risposta, sono ancora qui o cosa, piuttosto, vi sia oggi al loro posto.
Il primo mese di ottobre vissuto da pastore fu quello del 2012. La star del momento era il bosone di Higgs e la truppa dei pastori CUI era reduce dall’incontro degli unitariani europei a Cluj [in Romania]. La nostra Comunione Unitariana viveva, però, i tormenti della sua immaturità, oscillando tra gli slanci del voler stare insieme e le incomprensioni di identità diverse, tra l’anima cristiana e quella universalista. Non è strano, dunque, che il tema del sermone fosse lo stare insieme nella diversità nella società, ma soprattutto nella chiesa. “Ci sono pecore fuori dal recinto che […] ci dicono che ci sono altre idee ed altre vite che non capiamo e che sfuggiranno sempre alla nostra illusione del controllo. La paura di ciò che è fuori dal recinto della nostra comprensione ci spinge spesso a non guardare oltre la staccionata, illusi come siamo che perlomeno ciò che è nel recinto ci appartenga. Ma il ‘buon pastore’ ha il coraggio di spingersi al di là della recinzione e di offrire il suo spirito d’amore anche alle altre vite che ci guardano al di là del confine.” Era il tempo in cui vivevamo la nostra sfida come una missione profetica, volta a realizzare l’ultimo miglio di una trasformazione che pareva già in atto, anzi già consolidata in altri ambiti: quella dell’accettazione della diversità. Ci appariva, allora, che la società fosse già matura per questo e che fosse la religione l’ultimo baluardo di una chiusura identitaria altrove già superata, se non negli atteggiamenti individuali, perlomeno nei valori dominanti della società. Avremmo scoperto di lì a breve che non era così. Avremmo capito in pochi anni che la sfida di quel recinto è qualcosa di ben più difficile ed imponente, che attiene ahimè tutte le sfere della convivenza umana, tutt’altro che incanalate verso i valori dell’apertura e del rispetto oltre le differenze.
Giungiamo, così, all’ottobre 2013: è il periodo in cui esplode l’emergenza dei profughi, con il naufragio di Lampedusa ed i suoi 300 morti, ed altre stragi che si consumano nel mare o nel deserto. Noi iniziavamo un ciclo di incontri in cui ci interrogavamo sui nostri 7 Principi, affrontando così il tema della dignità, non immaginando ancora quanto proprio la reazione al tema dell’immigrazione avrebbe messo a dura prova il rispetto per questo valore fondamentale. Era ancora il tempo in cui a morti si rispondeva con il lutto nazionale, anche se morti stranieri, e non con i muri di odio. Di dignità parlammo, allora, rispetto al valore in sé della persona, al di là della sua strumentalità ad un qualsiasi scopo. Ci chiedemmo, quindi, se farsi strumento per il bene altrui, per un progetto più grande, comportasse una rinuncia alla propria dignità, e ci rispondemmo di no, perché “questo valore strumentale liberamente scelto non lede, ma anzi eleva la dignità dell’essere umano, perché lo aiuta a percepirsi come persona capace, libera e apprezzata”. Un passaggio del sermone colpisce il me stesso di oggi: “l’attenzione universalista all’inesauribilità della speranza ci invita a vedere in questo progetto una virtù da realizzare e ridefinire di volta in volta nel dialogo con lo Spirito, e non piuttosto un unico disegno, che si realizzi in un’unica realtà mondana. Se così fosse, infatti, ad ogni nostro fallimento corrisponderebbe la fine della nostra speranza. Il nostro impegno per la dignità di ognuno passa necessariamente per la testimonianza di una speranza universale, che faccia comprendere a chi è abbattuto dai venti del mondo che nessun fallimento, nessuna insufficienza, nessuno scherno ci toglie la dignità che ci è propria. E che, riconoscendolo, siamo in grado di riscoprire possibilità nuove con cui tradurre questo valore inerente in una ricchezza offerta al mondo”. Il tema del progetto e del fallimento è una questione che oggi torna ad essere irrisolta, soprattutto se dietro quel progetto non c’è tanto una libera volontà, ma piuttosto la missione imposta dalla propria vocazione.
Sermone di ottobre 2014: l’ennesima alluvione che devasta la Liguria mi spinge a parlare del nostro legame con la natura, di come esso ci riguardi molto di più di quello che crediamo, nella nostra illusione di esseri civilizzati che si sono affrancati dal legame con una madre, che a volte può essere mamma, ma altre volte essere matrigna. Ci riguarda nella sfera materiale del sopravvivere come in quella spirituale del vivere autentico, nello sviluppo economico come in quello spirituale. Ed il nostro 7° Principio, quel richiamo costante alla Rete della Vita, è lì a ricordarcelo. Oggi il problema ambientale sembra essere passato in secondo piano, quasi ignorato. Ad un indubbio miglioramento negli atteggiamenti individuali, dal vegetarianesimo alla raccolta differenziata, corrisponde, invece, un arretramento nelle politiche dei governi, di quello statunitense in primis. Ma i problemi dell’equilibrio del nostro pianeta e della sostenibilità del nostro sviluppo sono ancora tutti lì, sempre più gravi. Il riferimento all’aspetto spirituale del tema mi fa venire in mente un’altra cosa: tutta questa rete di legami e di connessioni al tempo mi eccitava, ora quasi mi spaventa. Sì, perché significa essere collegato anche a tutte quelle esistenze che non sopporti, ma che sono lì presenti. Abbiamo tanto predicato sulla diversità, ma sinceramente a me non riesce più di stare a tavola con tante persone ad ascoltare discorsi fascisti o razzisti, ma anche tanti discorsi banali e qualunquisti. Forse starò diventando vecchio, ma sento a volte di dover recidere qualche legame di troppo in questa rete che ci unisce, di trovare uno spazio di silenzio e solitudine in cui stare, mentre a volte sei costretto ad avere a che fare con questa diversità indigeribile.
Il nostro viaggio attraverso gli anni ci conduce all’ottobre del 2015. E proprio del viaggio parla il sermone di quel mese, con un titolo che riassume davvero il significato di quanto intendevo dire: “La speranza è coscienza del viaggio”. Sì, perché la speranza non è l’illusione che il mondo sia perfetto, o il facile ottimismo che rimuove la disperazione dal suo orizzonte. La speranza è nel sentire che, al fondo della sua disperazione, la vita ha risorse che la spingono ad andare avanti e una tensione che si oppone radicalmente alla prospettiva del nulla, e la muove verso il continuo superamento di se stessa. La speranza non è, dunque, nella meta della perfezione del mondo, ma nel viaggio continuo della sua perfettibilità. “Quando, come inevitabilmente accade, sentiamo la speranza assente nelle vicende alterne della nostra esistenza, dimentichiamoci l’illusione di un mondo perfetto, buttiamo nel secchio l’inganno di derivare dall’idea di un Dio perfetto la pretesa perfezione del mondo. Ricordiamoci che Dio, piuttosto, ci mette in viaggio, come ha fatto con il popolo di Israele. O, se vogliamo, ricordiamoci, come dice un proverbio taoista, che ‘il viaggio è già la ricompensa’. La speranza è coscienza di questo nostro essere in viaggio, di questo essere in viaggio di tutta la vita e di tutte le vite, con i passi o le ruote poggiate sul terreno concreto della vitalità del mondo e lo sguardo proteso oltre, verso le aspirazioni di un cielo che ci tiene dritta la schiena.” Questa convinzione è con me ancora oggi, è il perno saldo della mia fede, che rimane intatto anche nei momenti in cui la vibrazione danzante dello Spirito si fa più flebile in me.
Proprio di questa “vibrazione” parlammo, invece, nell’ottobre del 2016, con il sermone dal curioso titolo “Voglio vederti danzare”. In verità gli interrogativi a cui cercavamo di rispondere riguardavano la nostra identità come movimento religioso di fronte ad alcuni possibili rischi della religione liberale (quello di ridurre la religione ad etica, quello di un movimento in difficoltà nel sostenere le legittime esigenze di una completa pratica religiosa, quello di una racconto comprensibile e coinvolgente della nostra visione). Di fronte a questi dubbi, ribadivamo la novità della nostra missione come CUI: raccontare un Universalismo Unitariano fedele alla sua missione di testimonianza, oltre le singole religioni, ma esortavamo la nostra fede ad alimentare questa testimonianza dal sentimento profondo della Trascendenza, a superare un approccio eccessivamente razionalistico per corroborarsi dell’esperienza vibrante dello Spirito.
Giungiamo allora all’ultimo ottobre del nostro viaggio, per raccontarvi di un’esperienza ancora vivida nella mia mente, in cui, durante la semplice pratica quotidiana della devozione-meditazione I Kuan Tao, ho percepito il senso di quella “sovranità spirituale”, di “quella padronanza che conquistiamo nel momento in cui rinunciamo alla volontà di dominio ed, anzi, il nostro spirito acquisisce una tale indipendenza da non essere, piuttosto, dominato dal mondo stesso”. Esperienza che si collega alla scoperta del “vero sé” dentro di noi, che “lo sguardo universalista unitariano può aiutarci a definire” perché, “affermando l’unità con la Vita e tra le vite, l’UUismo ci suggerisce che quel Vero Sé che stiamo cercando dentro di noi si trova lì dove la persona si apre alla vita, si trova nella natura dell’animo umano aperta al rischio di un incontro con l’altro, con il futuro, con il Mistero”.
Ed eccoci ad oggi, 21 Ottobre 2018. Cosa ci dice questo viaggio a ritroso che abbiamo fatto insieme? Innanzitutto, credo ci insegni a dare maggiore peso alle nostre parole e alle nostre riflessioni all’interno della nostra comunità UU. E non mi riferisco solo a quelle dei miei sermoni: mi riferisco ai sermoni dei miei colleghi e alle parole che ciascuno di noi condivide negli spazi che la CUI, più di ogni altra fede, concede alla voce di ciascuno di noi. Non lasciamo che quello che è frutto di una ricerca profonda e di un vissuto spirituale autentico si riduca alla chiacchiera piacevole di un momento. Rendiamo la parola condivisa davvero una ricchezza, meditando sulle nostra come sulla altrui voce. In secondo luogo, questo excursus dovrebbe rammentarci di come siamo in viaggio, ciascuno nel suo percorso di ricerca spirituale, ma anche insieme nel cammino accidentato e coraggioso di questa nostra congregazione. Capiteranno momenti in cui sentiremo di avere poco da dire, altri in cui avremo poca voglia di ascoltare. Ma non conta il momento, conta il coinvolgimento in questa comune avventura spirituale, la cui ricchezza non si esaurisce nella chiacchiera di un pastore la domenica, ma coinvolge tutti i momenti in cui ciascuno di noi si interroga sull’unità della vita e tra le vite. In ogni ottobre della nostra esistenza, come in ogni qualsiasi altro mese.
Nella Via verso l’Uno,
Alessandro
* Laureato in Economia, ma da sempre interessato a filosofia e spiritualità, Alessandro Falasca è UU dal 2008 ed ha partecipato attivamente alla formazione della Comunione Unitariana Italiana. Particolarmente legato al trascendentalismo unitariano e all’universalismo emergente, la sua ricerca spirituale è ispirata al Taoismo e al Cristianesimo, ritrovando nella “teologia del processo” la base ideale per una loro sintesi. Negli ultimi tempi si è avvicinato all’I Kuan Tao, tradizione sincretica cinese.