La vita 2.0 delle persone LGBT in Congo, per sopravvivere al lockdown e all’intolleranza
Articolo di Juliette Dubois pubblicato sul sito del quotidiano Le Monde (Francia) il 21 giugno 2020, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
Era una sera di lockdown. Il ventiduenne Etienne*, che aveva appena installato sul telefonino l’applicazione Grindr, cominciò a parlare con Trésor*, “molto gentile ed educato”. Dato che c’era un buon feeling, i due decisero di vedersi subito, a casa di Trésor.
Come spesso accade nella Repubblica Democratica del Congo (RDC), la famiglia di Etienne è all’oscuro della sua omosessualità: “Sono molto religiosi, e se lo sapessero, mi caccerebbero”.
Una volta arrivato da Trésor, Etienne si sentì a suo agio: “Era bello, era come in foto. Abbiamo amoreggiato un po’, ma poi ha cambiato completamente atteggiamento: mi ha chiesto 200 dollari per non denunciarmi alla mia famiglia”. Dato che Etienne non aveva abbastanza denaro, il ricattatore gli prese il cellulare e le scarpe. Etienne rimase “traumatizzato”, e passo molte settimane a piangere in camera sua.
Il fenomeno degli outing forzati e delle estorsioni esiste da alcuni anni nella RDC, dove l’omosessualità è legale, ma poco accettata dalla società, ma è esploso a partire dalla fine di marzo [2020], che ha segnato l’inizio dello stato di emergenza. I bar e gli altri luoghi d’incontro sono stati chiusi, gli incontri sono confinati alla sfera privata, e questo rende gli utenti delle applicazioni [di incontri] particolarmente vulnerabili.
A volte le vittime si fanno addirittura “pestare” dagli aggressori: “[Gli aggressori] possono essere omosessuali, o anche etero che hanno voglia di fare del male” racconta Angelo, attivista dell’associazione LGBT Jeunialissime.
Militanza in difficoltosa
Prima della pandemia, le persone che, come Etienne, incontravano dei problemi, potevano usufruire del Safe Space e del sostegno dell’associazione Jeunialissime, ma dopo il 24 marzo, inizio dello stato di emergenza, tutte le associazioni hanno dovuto frenare le loro attività da un giorno all’altro.
Jeunialissime è sita in una piccola casa discreta di Kinshasa, la capitale della Repubblica del Congo (RDC). Sui muri del cortile spiccano dei murales sbiaditi dei colori dell’arcobaleno, e un distributore gratuito di preservativi. Scaly Kap’na, trentaquattro anni, è presidente dell’associazione, e da diversi anni uno dei principali difensori dei diritti LGBT nel Paese.
Si getta di slancio ad aprire la porta della piccola casa. Tutte le attività previste, tra cui dei laboratori di sensibilizzazione, sono state rimandate a data da destinarsi.
Agli attivisti, per fare militanza, non è rimasto quasi più nulla se non i cellulari e i computer. Scaly si è messo a organizzare incontri online, così da raggiungere più persone possibile. Il 17 maggio, giornata mondiale contro l’omofobia, una videoconferenza di Facebook ha permesso a diversi militanti di discutere per tre ore delle difficoltà incontrate dalle persone LGBT nella RDC e in Africa.
“Molti curiosi sono venuti a porre domande sulla nostra sessualità, continuando a volte a parlare in privato, perché quando ci si parla direttamente è più facile che i pregiudizi cadano” racconta Scaly, moderatore dei commenti. Sono stati organizzati anche molti webinar, ed è stato qualcosa di inedito per gli attivisti congolesi.
Gruppi WhatsApp contro il disagio
Anche Julie Makuala, che gestisce Oasis, altra associazione di Kinshasa, si è adattata rapidamente alla situazione, e le riunioni del gruppo, già messe in calendario, per discutere dall’accesso alla procreazione per le donne LBT, sono state sostituite da questionari online.
La pagina Facebook di Jeunialissime è sempre accessibile, e numerosi sono i messaggi privati che chiedono sostegno psicologico, consigli per affari di cuore, ma anche aiuto per fatti gravi: le derisioni, gli insulti e i litigi sono particolarmente frequenti per le persone che vivono confinate con la loro famiglia e non hanno la possibilità di prendere una boccata d’aria e vedere gli amici.
Alcune persone sono state cacciate di casa, e nella RDC non esiste una vera struttura di accoglienza, perché mancano i finanziamenti. Le associazioni comunque rimangono in ascolto e cercano delle soluzioni, anche a costo di preparare dei letti nel loro ufficio, come ha fatto l’associazione Rainbow Sunrise Mapambazuko di Bukavu.
Grazie ai gruppi WhatsApp gli attivisti possono anche segnalare le violazioni dei diritti umani: “La situazione, in termini di stigma, era già difficile, ma dall’inizio della pandemia è peggiorata di molto” spiega Jérémie Safari, coordinatore di Rainbow Sunrise Mapambazuko.
Alla radio diversi pastori sostengono che la pandemia è una punizione divina per lo stile di vita LGBT, e Jérémie ci racconta che all’inizio di giugno tre persone transgender sono state picchiate al mercato.
I gruppi WhatsApp permettono anche di venire in aiuto di chi è in difficoltà e vive in luoghi dove non esistono associazioni LGBT. A Mbuji-Mayi, nella provincia del Kasaï, molte persone hanno bisogno di una mediazione con la propria famiglia, racconta Apal Bahirwe, che gestisce l’associazione Vision d’Aigle a Lubumbashi, a più di 1.000 chilometri dal Kasaï.
Anche se tutti gli attivisti hanno fretta di tornare alla “vita normale”, la vita virtuale comunque continuerà, come una vita parallela.
* Non il suo vero nome.
Testo originale: En République démocratique du Congo, la communauté LGBT plus que jamais 2.0