L’accidentata ri/e-voluzione pop della cultura LGBT
Dialogo di Katya Parente col professore Luca Prono
La cosiddetta “cultura pop” permea tutta la nostra giornata: cartelloni pubblicitari, musica e, soprattutto, l’immancabile TV. Da qualche anno poi personaggi LGBT e situazioni “ambigue” (leggi queer), sono spuntati come funghi un po’ dappertutto. Come leggere questa “ri/e-voluzione”? L’abbiamo chiesto a Luca Prono che, da anni, si occupa di questi temi. Ecco cosa ci ha raccontato.
Sei l’autore dell’Encyclopedia of Gay and Lesbian Popular Culture, pubblicata negli Stati Uniti, che però a quanto mi consta non è ancora stata tradotta in italiano. Perché questa scelta?
Il libro risale ormai a 15 anni fa, in un periodo in cui lavoravo già nella scuola italiana come docente ma non avevo del tutto abbandonato l’idea di una carriera accademica nel Regno Unito dove ho lavorato come ricercatore e assistente di Studi Americani e Cinema dal 1996 al 2001.
La scelta di pubblicare in inglese nasce quindi dal contesto lavorativo accademico che conoscevo, che era stato per me fonte di emancipazione intellettuale e a cui non avevo ancora rinunciato completamente. Mi è sempre piaciuto scrivere in inglese e per anni ho continuato a farlo, pubblicando su temi legati al genere, ma anche all’intersezione di quelle categorie che Terry Eagleton chiama la “Trinità contemporanea”, razza, genere, classe.
Diventando preside dieci anni fa, ho avuto sempre meno tempo da dedicare a quello che rimane una passione comunque importante nella mia vita: la scrittura e l’analisi critica di opere letterarie e cinematografiche, soprattutto di lingua inglese, anche in contesti postcoloniali. Ho partecipato al progetto editoriale GLBTQ di cui si possono consultare gli archivi a questo link, http://www.glbtqarchive.com, e scritto per il portale letterario del British Council, https://literature.britishcouncil.org/.
Il mio libro che hai citato, comunque, non mi lascia completamente soddisfatto: ha avuto un periodo di scrittura troppo lungo e dilatato, avrei voluto dedicarmi al volume in modo più intensivo e con maggiore concentrazione. Lo dovessi riscrivere oggi cercherei di coniugare l’aspetto biografico tipico di un’enciclopedia (le voci dedicate ai singoli artisti) con un approccio più trasversale, interdisciplinare e tematico.
Aggiungerei anche una riflessione teorica che manca completamente. Con il passare degli anni, ho imparato ad apprezzare maggiormente e anche a capire meglio gli strumenti di analisi che ci vengono offerti da critici culturali e da teorici della cultura e della letteratura, come Derrida, Foucault, Deleuze e Guattari, Frederic Jameson, David Harvey, Judith Butler, Teresa de Lauretis, Eve Kosofsky Segdwick. Ma anche la Scuola di Francoforte, con l’eterno fascino di Walter Benjamin, e il marxismo di Luckàcs. Pensare che oggi il governo ungherese faccia togliere dai parchi e dalle strade le statue dedicate ad uno dei più grandi teorici del romanzo riempie davvero di tristezza.
C’è qualche tuo studio in lingua italiana? Se sì, dove si può reperire?
La maggior parte dei miei contributi sono in inglese. Anni fa, prima ancora del libro che hai citato, ho tradotto in italiano un mio articolo originariamente scritto in inglese su Pier Vittorio Tondelli, uno scrittore che ho molto amato e che ancora adesso è in grado di darmi emozioni molto forti, risvegliando una voglia di evasione e messa in discussione dello standard.
Vent’anni fa, quando ho scritto il saggio, la critica su Tondelli ne metteva in luce insistentemente la dimensione spirituale e di redenzione nella sofferenza. Sono voluto partire invece dalla materialità dei corpi per una lettura che riscrivesse l’omosessualità in Camere Separate. L’articolo è reperibile a questo link. Sito nato come spazio alternativo e aperto per la critica su Tondelli.
Con le altre persone che lo hanno brevemente animato (è giusto qui che ricordi Carmine Urciuoli) condividevamo entusiasmo ma difficile sviluppare un progetto con forze così limitate. Da tre anni collaboro con la rivista on-line Cinefilia Ritrovata, https://www.cinefiliaritrovata.it, un progetto editoriale che vede coinvolta la Cineteca di Bologna e che vuole andare oltre la dimensione nostalgica cui solitamente si associa la cinefilia per sviluppare un discorso critico più complesso.
Riprendere a scrivere di cinema è stato liberatorio, quasi un far pace con la carriera che avrei voluto ma che ho abbandonato in un momento di impulsività e di difficoltà. Mi garantisce uno spazio mio, una bolla temporanea in cui niente mi preoccupa perché scrivo di cinema e sono felice.
Da quanto fin qui detto, si deduce che uno degli argomenti da te affrontati è quello dell’omosessualità nel cinema. In Italia com’è cambiato l’approccio a questo tema? E, visto che si tratta di un argomento vastissimo, puoi darci anche un paio di indicazioni bibliografiche?
Recentemente ho trovato in un mercatino dell’usato gli atti del convegno “Erotismo, Eversione, Merce” (ed. Cappelli), tenutosi a Bologna nel 1973 a cui parteciparono intellettuali straordinari come Guattari, Pasolini, Pivano, Zolla: penso che queste pubblicazioni vadano riscoperte perché dimostrano che la narrazione della vita culturale del nostro paese in cui temi come genere e omosessualità sono marginalizzati dall’egemonia cattolica vada riscritta mettendo in evidenza anche i tentativi di resistenza e di affermazione di un altro punto di vista.
Un altro volume importante in italiano è La gaia musa (Gammalibri, 1981) in cui i due autori, Lancini e Sangalli, fanno una panoramica della rappresentazione dell’omosessualità nel cinema occidentale. Per venire ad interventi più recenti, gli studi di Mauro Giori (Omosessualità e cinema italiano), Marco Pustianaz e Liliana Borghi ci offrono importanti strumenti di analisi.
Einaudi ha poi appena pubblicato un libro dal promettente titolo Queer – Storia culturale della comunità LGBT+ di Maya De Leo. A livello internazionale, certamente un libro importante, un punto di partenza, è lo studio di Vito Russo Lo schermo velato, tradotto in italiano, da cui è stato tratto anche un documentario di Rob Epstein e Jeffrey Friedman. Poi ci sono i libri di Richard Dyer e Alexander Doty su divismo, rappresentazione della sessualità nella Hollywood dell’età classica e strategie di lettura queer di prodotti culturali non necessariamente identificati a tematica omosessuale.
Ci sono poi tanti film italiani che meritano di essere riscoperti, non solo riguardandoli ma anche provando ad approfondire la ragione della loro censura. Per esempio, qualche mese fa ho visto per la prima volta La ragazza in vetrina (1960) di Luciano Emmer: un film che alla sua uscita fu pesantemente criticato, censurato e che portò il regista a non girare più un film per trent’anni.
Di solito il discorso critico su questo film attribuisce gli interventi di censura alla storia d’amore tra un operaio italiano che lavora in una miniera belga e una prostituta olandese che il ragazzo incontra durante un week-end ad Amsterdam con un collega più anziano, interpretato con grande efficacia da Lino Ventura.
Solo marginalmente le critiche dell’epoca menzionano la scena in un bar gay che invece viene ad essere centrale nella mia lettura del film in cui il personaggio di Lino Ventura si trova ad essere l’oggetto del desiderio degli avventori, della macchina da presa, ma anche del suo collega più giovane.
Rileggo il film come un buddy-movie che sviluppa una critica alla società capitalista e alla sua inibizione del desiderio, etero ed omosessuale, mercificando tanto i corpi degli operai quanto quelli delle prostitute che questi frequentano nel fine settimana, pur desiderandosi omoeroticamente.
Sei dirigente scolastico. Che impatto ha avuto il tuo occuparti di temi queer sulla tua carriera?
Penso e ripenso a questa domanda e – sai cosa c’è che non va? – che non posso non rovesciare i termini: è la mia carriera come preside che ha avuto un impatto sul mio occuparmi di temi queer. Fare il preside lascia poco tempo per il resto, interessi e vita privata. Anche prima della pandemia, in modo esponenziale in questi due ultimi anni.
Per questo, valorizzo ogni momento in cui riesco a dedicarmi ad altro. Mi piace anche pensare che essere un soggetto queer, leggere e scrivere di temi queer, abbia anche un effetto di decentramento e di apertura all’ascolto, due caratteristiche che un preside deve avere. O, forse, no? Le persone meritano di essere ascoltate a prescindere?
Parlando di scuola e delle generazioni più giovani: a che punto siamo nell’accettazione delle persone LGBTQ?
La scuola rispecchia la società con tutte le diverse gradazioni di accettazione. Già che si debba parlare di “accettazione” significa che comunque c’è qualcosa che ci provoca un po’ fastidio, che devia da una norma e che la norma accetta di tollerare. Ecco, bisognerebbe che il concetto stesso di norma venisse messo in discussione e che non ci fosse bisogno di legittimare comportamenti diversi. Certamente in questo senso nella scuola sono stati fatti passi importanti, tanti progetti che fanno riflettere che non c’è appunto una norma da applicare all’amore e ai sentimenti.
Quest’anno, all’interno di un progetto di giornalismo, una terza di una delle mie due scuole secondarie ha scritto un articolo sul movimento LGBTQ che è stato poi pubblicato su un giornale locale: sono stato molto orgoglioso di loro e gli ho regalato l’articolo incorniciato da appendere in classe.
Tutte le polemiche sulla teoria del gender che noi viviamo ora mi ricordano il dibattito degli anni novanta in Inghilterra su Clause 28, un provvedimento voluto nel 1988 dai governi Thatcher-Major per proibire il finanziamento di iniziative pubbliche, eventi culturali o di progetti scolastici LGBTQ. Ci volle più di un decennio con due elezioni politiche vinte dai laburisti con una valanga di voti per abolire l’odioso provvedimento nel 2003 (due elezioni significa che anche i laburisti avevano un bel po’ di dubbi).
Che da noi la polemica infiammi a quasi vent’anni da allora non se ne sentiva il bisogno, ma forse è ingiusto ricondurre la polemica solo al contesto italiano: c’è tutta una polemica internazionale contro il complotto gender.
Pensi che l’Italia sia pronta per una legislazione anti-omofobia che si allinei a quella europea, o quello di Zan è un tentativo che, per attecchire, avrebbe bisogno di un substrato culturale un po’ più ricettivo?
Che l’Italia sia pronta o meno, l’anti-omofobia è un valore di democrazia e di civiltà. Anche qui rovescerei i termini della domanda: il substrato culturale più ricettivo alla differenza, un beneficio per tutti, può essere costruito anche grazie ad una legislazione che tuteli e valorizzi, impedendo discriminazioni. Sinceramente, fatico a capire il motivo delle difficoltà ad approvare il provvedimento: perché la maggioranza che c’era alla Camera, rischia di non esserci in Senato.
Ringraziamo Luca per il suo prezioso contributo e auguriamoci che, sempre più spesso, “cultura” faccia rima con “promozione umana” e che la società allarghi sempre di più il suo orizzonte culturale: solo così ci saranno rispetto e dignità per tutti.