L’Africa che odia i gay: ‘Uccidiamo i degenerati’
Articolo di Domenico Quirico tratto da La Stampa del 1 dicembre 2010
Raila Odinga, primo ministro del Kenya, ha trovato finalmente il Nemico: non la siccità, non il tribalismo, non la miseria, non l’Aids, e neppure il presidente Kibaki con cui è costretto a convivere per la vigilanza minacciosa della comunità internazionale.
Il nemico sono gli omosessuali che meritano infatti di «essere arrestati e lo saranno».
Il fatto che questo repressivo programma sia stato enunciato durante una visita nella bidonville di Kibera a Nairobi, una delle maggiori vergogne del Paese, non ne ha smussato il furore moralistico: «Qualsiasi maschio sorpreso in flagrante attività sessuale con un altro uomo deve essere arrestato.
Lo stesso vale per le lesbiche».
Deliziato dagli applausi e dalle risate grossolane della folla il premier ha scandito il primo comandamento della corretta sessuologia nazionale.
«La popolazione di questo paese è formata in giusta misura da maschi e da femmine. Non c’è quindi alcun bisogno della omosessualità».
E pensare che i movimenti gay, (ne esistono formati da indomiti apostoli, visto il clima dominante) gioivano individuando nella nuova Costituzione niente meno che una implicita autorizzazione del matrimonio omosessuale e dell’aborto.
«Efferatezze giuridiche» che Odinga ha staffilato senza rimedio: «Non sono altro che menzogne diffuse per seminare la confusione.
Il testo costituzionale è chiarissimo e non c’è scritto da nessuna parte che il matrimonio tra gay è legale in Kenya».
Odinga minaccia, nel vicino Uganda si agisce. Un settimanale ha pubblicato cento foto di gay con il perentorio invito «hang them», impiccateli.
Solo l’inizio: i giornali lo hanno seguito con pagine intere di nomi e soprattutto di indirizzi di gay e lesbiche «influenti».
Una sorta di quinta colonna del vizio, ovviamente da estirpare.
Non sono scoppi climaterici: la legge punisce l’omosessualità con 14 anni di carcere.
È sospesa in Parlamento, ma non ritirata, una proposta che prevede la pena di morte per «omosessualità aggravata»; e tre anni per chi non li denuncia.
In un Paese dove i bar del quartiere degli affari di Kampala si pigiano i «mzungus», uomini bianchi, che vengono a raccattare senza problemi prostitute minorenni a venti dollari.
Questa moderna caccia alle streghe ha un colpevole: le sette evangeliche americane, potentissime in tutta l’Africa australe dove, a colpi di dollari, si sono insinuate nei Palazzi del potere.
Vogliono imporre nell’Africa del buon selvaggio il modello teocratico e puritano esportato dagli Stati Uniti. Dove per i gay non c’è posto.
Unica concessione: alla pena di morte voluta dai loro catacumeni locali preferirebbero «un trattamento» obbligatorio per i reprobi.
Gli evangelici sono l’eccitatorio anche nel piccolo e derelitto Malawi, dove la polizia, pigra in tutto, è attivissima a smantellare «reti di gay e di lesbiche» come se fossero emanazioni del crimine organizzato.
Sui giornali le notizie di arresti e condanne finiscono in prima pagina con truculente descrizioni dei presunti capi del traffico, ovvero «bianchi preti e professori di università».
In Gambia il presidente sbraita in televisione che «taglierà a testa a tutti gli omo». Il dittatore dello Zimbabwe Robert Mugabe qualifica i gay «peggio che i cani e i maiali» e scatena la polizia.
Ultime vittime una ventina di studentesse minorenni accusate di «pratiche lesbiche».
Dove si ferma la legge provvede l’invasata isteria popolare. Il Sud Africa ha una legislazione che garantisce la libertà sessuale.
Ma vale solo nei quartieri chic di Città del Capo e di Johannesburg. Nelle township la caccia ai gay è sempre aperta e la polizia non se ne occupa. Recentemente alcune lesbiche sono state lapidate con dei mattoni.
L’Africa musulmana non è diversa nell’intolleranza. In Sudan una ventina di supposti gay sono stati puniti con 30 frustate.
In Senegal l’omosessualità è un delitto. Nel 2009 il tribunale di Dakar ne ha condannati nove a otto anni di prigione «per atti impudichi e contro natura e associazione a delinquere». Giornali e imam hanno applaudito.
Quando i condannati sono stati liberati per intercessione della Francia, le associazioni islamiche hanno inveito, nel consenso generale, contro «il colonialismo che protegge i gay».