Laici e consacrati omosessuali nella chiesa cattolica: riapriamo un dialogo?
Riflessioni di Emanuele Macca
Quando ho letto il documento della CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA – “Istruzione circa i criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali in vista della loro ammissione al Seminario e agli Ordini sacri” pubblicato in data 4 NOVEMBRE 2005, sono rimasto negativamente colpito dalla perentorietà con cui veniva impedito l’accesso al Ministero e agli Ordini a tutti i gay dichiarati o a quelli che sostengono la causa gay.
Con più precisione al capitolo 2 del medesimo documento così si afferma: “la Chiesa, pur rispettando profondamente le persone in questione, non può ammettere al Seminario e agli Ordini sacri coloro che praticano l’omosessualità, presentano tendenze omosessuali profondamente radicate o sostengono la cosiddetta cultura gay”.Sono qui descritte tre situazioni specifiche. Se rispetto a due di esse si può intravedere un senso logico, implicando la scelta sacerdotale anche la continenza e l’adesione al Magistero della Chiesa (posto che è più che lecito domandarsi cosa si intende per cultura gay e se essa per davvero esista!), una mi ha lasciato perplesso ovvero l’esclusione delle “persone con tendenza omosessuale profondamente radicata” anche qualora esse siano disposte per scelta personale ad essere ligie nell’obbligo della continenza.
La storia ci insegna che nella Chiesa hanno trovato rifugio molti omosessuali che vivevano e vivono con drammatica conflittualità il rapporto con le loro pulsioni omo; e trovo correttissimo impedire che costoro pensino così di farsi risolvere dall’ambiente ciò che non hanno saputo gestire prima di tutto nella loro psiche e nella loro coscienza.
Paradossalmente però una persona omosessuale che dopo aver maturato anche esperienze affettive di coppia, senza problemi di visibilità e quindi dopo aver affrontato anche il rapporto con la famiglia (passo che implica una maturazione psicologica importante), ritiene che in lui l’amore per Cristo sia tanto fondamentale da volerGli dedicare tutta la sua vita nella consacrazione sacerdotale; bene essa non può farlo! Ecco che un percorso così lineare e a volte anche logorante, di profonda maturità e coraggio non viene minimamente considerato in tale documento. Conta l’appartenenza psichica o sociale, l’essere più che il divenire, più che il maturare nella trasparenza con se stessi e quindi con gli altri!
Conoscendo tanti gruppi di gay credenti almeno nel mondo occidentale mi è venuta l’idea di chiedere loro come questa direttiva fosse applicata nei loro Paesi. Non è una ricerca quantitativa, ma resta una piccola indagine qualitativa che mi ha lasciato qualche spunto da condividere qui con voi. La sorpresa più immediata che distingue la situazione italiana da quella internazionale è che in molti gruppi esteri ci sia un rapporto stretto con esponenti omosessuali del clero (la rete francese “Devenir un en Christ” per esempio ha indicati sul sito delle guide religiose per zona).
Invece in Italia non mi risulta esserci un rapporto così visibilmente osmotico tra laici e consacrati omosessuali. Certo nemmeno ci sono esponenti del clero dichiaratamente omo; e altrettanto il rapporto tra i gruppi e alcuni sacerdoti non è stato dei più felici. Ma ciò non toglie che così si è creato un muro comunicativo che non aiuta due mondi a capirsi, a trovare le giuste modalità di relazione sociale, comunitaria e soprattutto interpersonale andando oltre un atteggiamento reciprocamente colpevolizzante, rancoroso e a volte esasperatamente timoroso.
Per rispondere al mio quesito, vari gruppi (cattolici omosessuali) avevano inoltrato la domanda al loro referente prete. Da queste risposte sono uscite le più disparate condivisioni: chi consigliava di cercare Chiese più aperte mostrando una sorta di abitudinarietà a questi cambi di “casacca” (Stati Uniti), chi racconta di partecipare abitualmente ai Pride (Canada), chi analizza con attenzione la storia del documento e sottolinea un atteggiamento di prudenza nell’inserirsi in un ambiente piuttosto che in un altro (Europa e in particolare Francia).
Per ambiente qui intendo gli Ordini tradizionali (domenicani, carmelitani e via dicendo) al cui interno possono esserci priori molto “liberal” soprattutto nei paesi anglosassoni; non a caso però si tratta degli ordini storici non strettamente legati a queste tematiche, mentre i movimenti contemporanei (Rinnovamento dello Spirito, Neocatecumenali) su questi aspetti hanno tendenzialmente posizioni più rigide.
Mi verrebbe da fare questa domanda provocatoria : ma conta più l’appartenenza ecclesiale o quella alla culturale del luogo in cui si vive? Dalle risposte ricevute intuisco che l’appartenenza a un determinato clima culturale ha una influenza importante. L’influenza liberal del mondo anglosassone potrebbe favorire l’accettazione anche in seno alla Chiesa di una dialettica più viva ed aperta su questi temi che qui in casa nostra diventano terribilmente scottanti e preferibilmente censurati.
Sta a noi tornare ad educarci a una pedagogia della visibilità che potrebbe aiutare la nostre comunità di appartenenza ad affrontare in modo meno ansiogeno il tema dell’omosessualità e potrebbe sostenere anche il clero sulla stessa direzione. In un’ottica liberale infatti, una visibilità meno politica e più narrativa aiuterebbe a non schematizzare in modo così semplicistico le categorie di persone legandole indissolubilmente alle contrapposizioni politiche (gay o omosessuali ostentati che affermano l’“ideologia del gender” contro gli omosessuali discreti e poco visibili che sono più recuperabili alla causa ecclesiale), uno schematismo che a mio avviso è rintracciabile nello stesso documento citato all’inizio di queste mie righe.