L’AIDS e i cattolici. Una storia mai raccontata
Testo* tratto dal libro Hidden Mercy: Aids, Catholics, and the Untold Story of Compassion in the Face of Fear (Misericordia nascosta. L’AIDS, i cattolici e la storia mai raccontata della compassione di fronte alla paura) di Michael J. O’Loughlin**, pubblicato sul sito dell’emittente radio WBUR (Stati Uniti) il 1 dicembre 2021, liberamente tradotto da Silvia Lanzi
Quando padre Bill McNichols iniziò a lavorare alla sua pastorale incentrata sull’AIDS a New York, gli sembrava che nessuno potesse pensare che era gay, quindi andò avanti senza mai negare i pettegolezzi sulla sua sessualità. Alla fine confermò le voci, perché i giovani uomini malati di AIDS sapessero di avere un alleato. Questa cosa l’avrebbe ferito in seguito, ma per ora sapeva che era importante per il suo ministero essere sincero sul suo orientamento sessuale.
La sua intuizione si rivelò corretta. Suor Patrice Murphy, che supervisionava il dipartimento di cura pastorale del Saint Vincent’s Hospital, disse che padre Bill era particolarmente dotato nel suo ministero, proprio a causa della sua condizione. Tra le centinaia di volontari dell’ospedale, suor Patrice aveva visto l’unicità di padre Bill, perché “sapeva cosa significasse soffrire, ed essere giovane e gay. Dato che era gay egli stesso, poteva entrare in empatia, e in una certa misura far proprie le sofferenze di coloro che assisteva”. Nella sofferenza di padre Bill, suor Patrice vide “un modello di perdono cristiano”, un uomo che era capace di “sopravvivere ed essere una persona migliore”.
Al Saint Vincent’s, padre Bill sapeva di non avere molto tempo con molti dei giovani uomini citati nelle liste che gli erano state date, che un tempo erano atletici e pieni di vita, mentre ora vivevano in un reparto AIDS, emaciati dopo settimane e mesi di malattia. Quando incontravano padre Bill, molti erano troppo deboli per parlare. Il sacerdote poteva solo pregare con loro e consolare i loro cari. Ma alla fine, la stragrande maggioranza dei pazienti moriva.
Queste liste non erano particolarmente memorabili, almeno non a prima vista. Nomi. Stanze. Appuntamenti. Ma dietro ogni nome c’era una storia complessa. Questi pazienti erano uomini giovani, come lui, che si erano trasferiti a New York per inseguire i propri sogni. Si erano lasciati alle spalle le loro città di provenienza, alle quali sentivano di non appartenere.
Bill conobbe alcune persone incluse in quelle liste, incluso Jeff, un cantore di una cappella universitaria, la cui voce gli aveva toccato il cuore. C’era Louis, che a Bill ricordava san Luigi [Gonzaga], il giovane gesuita che nel XVI secolo era morto di peste. Quella settimana Bill e Louis parlarono per ore al telefono. Bill gli raccomandò alcune letture spirituali, come santa Teresa di Lisieux, un suggerimento inizialmente respinto dal duro newyorkese.
Ma una notte Louis chiamò Bill, stupito dell’intuizione di questa santa gentile. Tra i due scattò qualcosa. Ma, come molte altre delle sue amicizie di quel periodo, anche questa finì quando Bill presiedette il funerale di Louis.
Il sacerdote aveva capito che molti giovani uomini morti di AIDS avevano vissuto vite difficili, bullizzati, fatti sentire diversi, meno degni. Era stato lì, a New York, che molti di loro si erano finalmente accettati, godendo del dono di vivere apertamente il proprio essere gay.
E poi, proprio quando le loro vite si erano incanalate nei binari giusti, erano stati stroncati da una malattia che portava con sé stigma e condanna. Padre Bill non avrebbe potuto infliggere loro un’ulteriore umiliazione buttando i loro nomi nella spazzatura, e infatti non lo fece. Alla fine di ogni giornata in ospedale, padre Bill conservava la sua lista.
Il mucchio di carta aumentava man mano che i mesi passavano: l’epidemia di AIDS era inesorabile. Decine di migliaia di newyorkesi morirono, e molti dei loro nomi erano stampati sulle liste di padre Bill che aveva ammassato in un album un pesante mucchio di date e nomi.
Li sfogliava, leggendo alcuni nomi ad alta voce. Quando riemergeva un ricordo particolarmente vivido, diceva una rapida preghiera. Fu allora che ebbe un’idea.
Nel suo cuore padre Bill aveva un posto speciale per i santi. Le storie delle loro vite lo avevano consolato da bambino, e a scuola l’avevano aiutato ad affrontare il bullismo. Ora, come giovane prete, sentiva che i santi erano suoi amici e compagni di strada.
C’era qualcosa di mistico nella relazione di padre Bill con i santi. Non li pregava tanto per conversare con loro, quanto per condividere le sue paure e le sue speranze. Durante il picco dell’epidemia di AIDS, padre Bill stava in silenzio per potersi mettere alla loro sequela e sotto la loro guida, ed essi lo incoraggiarono ad andare avanti.
Nei reparti ospedalieri sentiva qualcosa di sacro mentre era al lavoro. Sebbene la società vedesse i pazienti come uomini malati che meritavano ciò che avevano ricevuto, a padre Bill sembravano dei santi, e voleva fare qualcosa per onorare le loro vite.
Il giorno dopo Ognissanti i cattolici commemorano i defunti, un tempo per ricordare i propri cari morti, pregare per la loro salvezza e ricordare le loro vite. In periodi di guerra o malattia, il giorno dei defunti può essere fonte di conforto speciale per chi ha perso qualcuno.
Con l’AIDS che uccideva migliaia di americani ogni anno, i ristoranti e parchi dove aveva passato il tempo con gli amici defunti, ora erano vuoti. Aveva bisogno di fare qualcosa che ricordasse a se stesso che la morte non avrebbe avuto l’ultima parola, che i suoi amici sarebbero stati ricordati.
Ogni 2 novembre padre Bill celebrava in cappella una Messa per la commemorazione dei defunti, portando con sé il suo album dei ritagli, che adesso era pieno di nomi. Metteva il libro sull’altare, e mentre consacrava l’Eucarestia diceva una preghiera silenziosa per le persone della lista.
Pensava ai pazienti con cui aveva stretto amicizia prima della loro morte prematura. Pregava specialmente per coloro che morivano soli, respinti da una società che disprezzava così tanto il loro amore.
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Per quanto mi è dato di ricordare, sono sempre stato in ricerca. Sono gay e cattolico, e combatto continuamente per conciliare queste due parti della mia identità. Ammetterlo adesso sembra ridicolo, data l’accettazione sociale ottenuta dalla comunità LGBT in anni recenti, ma solo battere sulla tastiera le parole “sono gay” mi riempie l’intestino di un nodo d’ansia.
Non molto tempo fa, non avrei mai trovato il coraggio di scrivere quelle che sembrano parole così semplici, sapendo che altri le avrebbero lette. Quest’ansia non dovrebbe avere molto senso, visto il posto in cui sto scrivendo.
Sono seduto in un caffè all’aperto a Boystown, il quartiere gay che ho scelto come casa. Sono circondato da altre persone, e indosso un orologio con un cinturino arcobaleno. Non è esattamente qualcosa di discreto. All’inizio l’avevo preso per mettermelo in giugno, il mese del Pride, ma ho deciso che mi piaceva, e l’ho tenuto tutto l’anno.
Non è l’unico accessorio che indosso.
Al collo, frugando di tanto in tanto attraverso i bottoni aperti della mia camicia, c’è una catenina d’argento con attaccate un paio di medagliette raffiguranti dei santi. Se qualcuno, guardandomi, notasse il mio cinturino e la mia catenina, non ci sarebbe bisogno di precisare che sono gay e cattolico. Lo capirebbero subito. Ma scrivere queste parole, o dirle ad alta voce, non è che sia diventato più facile, anche se indosso accessori che parlano chiaro.
E questo è il motivo della mia ricerca, un tentativo lungo anni di portare alla luce storie che aiutino a far coesistere in pace queste due parti indelebili della mia identità. O che, almeno, mi facciano sentire a mio agio quel tanto che basta per dire chi sono senza arrossire.
Una sera dopo cena, nel 2015, un amico mi raccontò una storia che avrebbe cambiato il corso della mia vita per molti anni. Questo mio amico, che ha una ventina d’anni più di me, mi disse che, quando era un giovane prete, i cattolici gay dovevano affrontare feroci attacchi da parte delle autorità ecclesiastiche che vegliavano aggressivamente sull’ortodossia, e questo sconvolgeva le loro vite, proprio come aveva fatto l’epidemia di AIDS.
Queste crisi “gemelle” avevano creato una sorta di “pentola a pressione”. Il mio amico aveva seguito spiritualmente alcune di queste persone, e le loro storie erano rimaste con lui a decenni di distanza. Ne condivise qualcuna con me. Rimasi molto colpito.
Dopo quella conversazione, ero intenzionato a saperne di più sui rapporti tra cattolici LGBT e leader ecclesiastici durante il culmine della crisi dell’AIDS negli Stati Uniti. Forse, come molti gay cattolici poco più che trentenni, sapevo che negli anni ’80 esistevano tensioni tra la Chiesa e gli attivisti LGBT. Capivo anche che gran parte di quella frustrazione ruotava attorno all’uso del preservativo per combattere la diffusione dell’HIV, ma esisteva un’enorme lacuna nella mia comprensione della comunità omosessuale. Alla fine mi sarei reso conto del perché.
La storia delle persone LGBT spesso non viene tramandata. Non si racconta a tavola, e non si insegna, se non incidentalmente, nelle scuole pubbliche. I sacerdoti cercano di non sottolinearla dal pulpito. Delle migliaia di santi cattolici, non uno è indicato come gay o lesbica. Inoltre, le amicizie intergenerazionali sono rarissime nella comunità gay. Se lo fossero di meno, forse avrei saputo di più su questa storia. La mia storia. Questa considerazione mi diede un’idea.
Decisi di prendermi la responsabilità della mia educazione. Negli anni successivi usai le mie capacità di reporter per individuare le persone le cui storie avrebbero potuto aiutarmi a trovare risposte.
Imparai una storia che prima mi era stata negata, e che avrebbe potuto aiutarmi a capire che la mia inquietudine era meno unica di quanto a volte pensavo. Più tardi, ho capito che questa sensazione di isolamento non è inusuale per i giovani LGBT, specie per quelli che cercano di sentirsi a casa in quella che spesso può sembrare una tradizione religiosa poco accogliente.
Spero di rendere giustizia alle storie di suor Carol e padre Bill, e dei molti altri che mi hanno affidato alcuni dei loro momenti più privati. Forse è ovvio dirlo, ma ogni persona in questo libro è unica. Alcune sono etero, altre gay. Altre non lo dicono nemmeno. Alcune sono cattoliche per nascita ed educazione e non hanno mai lasciato la Chiesa, altre l’hanno contestata, e alla fine ne sono uscite quando hanno visto che essa non era all’altezza dei loro ideali.
Anche se ogni storia si sviluppa in modo diverso, molte delle persone che ho intervistato per questo libro hanno almeno una cosa in comune: sono state disposte a offrire spunti su un periodo storico pieno di dolore, lutto, speranza, rabbia, amore e perdita, nel tentativo di mantenerne vivo il ricordo e farlo conoscere agli altri in modo che noi potessimo sentirci meno soli.
* Citato, previo consenso, da Hidden Mercy: AIDS, Catholic, and the Untold Stories of Compassion in the Face of Fear di Michael O’Loughlin. Copyright © 2021 Broadleaf Books
** Michael J. O’Loughlin è corrispondente per gli Stati Uniti del settimanale gesuita America ed autore della serie di articoli e podcast della serie Plague (La peste: storie mai raccontate su AIDS e Chiesa Cattolica). Il suo libro Hidden Mercy: Aids, Catholics, and the Untold Story of Compassion in the Face of Fear ha ricevuto il plauso di papa Francesco.
Testo originale: Book excerpt: ‘Hidden Mercy’