L’amore di una madre per suo figlio, un ragazzo trans con sindrome di Down
Articolo di Marta Borraz* pubblicato sul sito eldiario.es (Spagna) il 27 gennaio 2019, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
“Non credo che Jack sia l’unico ragazzo trans con sindrome di Down. Sono sicura che ci sono molte persone disabili a cui viene negato il diritto all’autodeterminazione di genere.” Beatriz Giovanna parla di suo figlio diciannovenne, che vive con la sua famiglia ad Alicante, nella Comunità Valenciana. Sta studiando da cuoco e ama giocare a pallacanestro, ma ha un’altra caratteristica che segna molto la sua vita: è un ragazzo transessuale. Quella di Jack è una storia invisibile e poco nota, un cammino ad ostacoli per ottenere che la sua decisione sia valida e rispettata.
“La parola delle persone disabili non è concepita come qualcosa di serio, non ha importanza né validità per la società. Non sono prese sul serio, sono trattate come eterni bambini che si inventano le cose e sono sempre pronti a cambiare idea. Immaginate poi quando uno di loro dice di essere transessuale” spiega la madre.
Dato che il giovane non si esprime e non scrive in modo convenzionale, Beatriz lo aiuta a raccontare che “essere Jack” è la cosa migliore dell’intero processo, iniziato tre anni fa. A 16 anni è stato in grado di verbalizzare, con l’aiuto di una psicologa e di una logopedista del centro per disabili che frequenta, che si sente un ragazzo, dopo anni di frustrazione dovuta a modi di vestire e comportarsi, associati al sesso femminile, che sentiva come un’imposizione.
Jack mette il nome e la faccia per combattere le moltissime discriminazioni vissute dalle persone LGBTI disabili, una realtà trascurata per mancanza di visibilità e punti di riferimento. Se ne è occupata recentemente la rete europea Transgender Europe, un collettivo internazionale che cerca di rendere visibile questo tipo di situazioni.
In un suo studio vengono illustrate alcune delle barriere che impediscono a questa comunità di “godere dei suoi diritti umani” e viene spiegato che “la transfobia e l’abilismo (la discriminazione contro le persone disabili) mettono sovente radici tra i servizi e i professionisti” che hanno il compito di accudire queste persone.
È “probabile”, continua il documento, che [le persone trans disabili] subiscano “delle discriminazioni in relazione a questi due aspetti della loro identità, quando si tratterebbe semplicemente di soddisfare le loro necessità”; è necessario modificare le pratiche e i protocolli sanitari, porre fine agli atteggiamenti di pregiudizio e alla “mancanza di autonomia” che molto spesso affliggono le persone disabili.
“Tua figlia continua a dire di essere un ragazzo?”
Per quanto Beatriz non nasconda il dolore da lei provato “nel perdere una figlia per avere in cambio un figlio” e riconosca che non è stato un cammino facile, parla però anche dei legami e della stretta relazione che loro due sono riusciti a stringere: “Abbiamo marciato con passo deciso, alla ricerca del godimento del pieno diritto di cittadinanza, il diritto di un ragazzo con ritardo mentale, mio figlio, che decide e sa cosa vuole”. Di fronte al pregiudizio, questa donna lotta per evitare che si ripetano le situazioni sgradevoli che è stata costretta a subire in passato, ed è convinta che il cammino di Jack sia stato più lungo di quello di altri giovani trans della sua età.
“Ci sono cose che è difficile dimenticare. Abbiamo incontrato uno psichiatra il quale ha insinuato che la sua transessualità fosse il frutto del mio desiderio di avere un figlio invece che una figlia. È stato un grande dolore, ma gli ho risposto che mai avrei condizionato mio figlio in quel modo, e che non c’entravo nulla [con la sua decisione].”
Ricorda anche una compagna di master universitario che le ha chiesto: “Allora, tua figlia continua a dire di essere un ragazzo?”. “Il fatto che abbia la sindrome di Down fa sì che la società creda che avrà sempre le idee confuse e che non sia in grado di prendere decisioni.”
Al di là di questo tipo di discriminazioni, quotidiane e invisibili, le persone LGBT disabili sono anche a rischio aggressione. La disabilità da una parte, l’orientamento sessuale e l’identità di genere dall’altra sono i due parametri utilizzati dal Ministero dell’Interno nel registrare i crimini dettati dall’odio: nel 2017 si sono registrate 23 denunce per il primo motivo e 271 per il secondo.
Senza dubbio, secondo la comunità LGBT, questa è solo la punta dell’iceberg, dato che moltissime aggressioni non vengono denunciate: sempre nel 2017, la sola Federación Estatal de Lesbianas, Gais, Trans y Bisexuales ha contato 623 aggressioni di questo tipo.
Cambiare nome, ma non il sesso
Per questo lo studio di Transgender Europe insiste sul “documento chiave” che invita le associazioni che si occupano di questi temi all’attivismo “intersezionale”, che tenga cioè conto dei diversi tipi di discriminazione di cui può soffrire la medesima persona; questo, assieme alla costruzione di punti di riferimento, può contribuire a spezzare il nascondimento a cui sono costrette molte persone: “Credo ci siano molte persone come mio figlio, che però sono zittite dalle famiglie, ecco perché è importante rendere visibile questa esperienza di vita” dice Beatriz.
Jack confessa che ora si sente “davvero felice”. Dallo scorso giugno assume ormoni, anche se ancora non può cambiare il sesso nei suoi documenti, ma solo il nome. A partire dallo scorso ottobre [2018] le persone trans e non binarie possono modificare ufficialmente il proprio nome senza essere obbligate a soddisfare i requisiti contemplati dalla legge [sul cambiamento di sesso], grazie a un decreto del Governo.
Senza dubbio la patologizzazione [delle persone trans] ha ancora il suo peso, visto che bisogna presentare un certificato che attesti la disforia di genere, ma il Congresso sta lavorando per cambiare la legge: “La società ha tutt’ora un grosso debito con chi è diverso” conclude Beatriz.
* Marta Borraz è giornalista impegnata nel campo dei diritti umani e delle tematiche di genere. Twitter: @martaborraz
Testo originale: Beatriz, madre de un chico trans con síndrome de Down: “La sociedad cree que nunca lo va a tener claro”