‘Lasciate che mi faccia operare’. Storie di transessuali iraniani
Articolo di Nasseri Ladane tratto da Liberation del 12 dicembre 2006, liberamente tradotto da Dino
In Iran circa 800-1.000 persone hanno cambiato sesso. Teheran, che autorizza l’intervento e fornisce nuove carte d’identità, è un’eccezione tra gli stati musulmani.
Malgrado tutto la vita dei transessuali rimane difficile in un paese in cui è vietato parlare pubblicamente di sesso.
L’incontro con Sharareh, Ali e Sayeh
Vestita con un abito rosa e appollaiata su un paio si stivali di daino che fa ticchettare sul pavimento, Sharareh, 24 anni, entra nella sala d’attesa. Fa una giravolta, solleva il foulard che le copre la capigliatura e fa ammirare all’ospite la sua nuova chioma dorata. Poi si liscia una lunga ciocca sul lato del viso e scruta dall’alto in basso la giornalista di Libération che aspetta lì nella stanza.
“E’ molto tempo che è stata operata? E’ riuscito davvero bene, sa!” esclama, convinta che tutte le persone presenti siano de* transessuali come lei. Grazie al passaparola la clinica del dottor Bahram Mir Jalali, a nord di Teheran, è diventata una specie di quartier generale de* transessuali, e accoglie pazienti che provengono da provincie lontane e anche da paesi vicini, e che desiderano liberarsi di un corpo nel quale non riescono ad identificarsi.
Sharareh, che in precedenza si chiamava Aydin, ha fatto il grande passo due mesi fa. “Sono appena nata, dice lusingata. Grazie agli ormoni la mia voce si è fatta più dolce e la peluria del mio viso sta sparendo. Presto dovrò scegliere tra numerosi pretendenti”.
Non è un peccato
Contrariamente alla quasi totalità degli Stati musulmani, la repubblica islamica dell’Iran autorizza gli interventi di cambiamento di sesso purchè il paziente sia in possesso di un certificato approvato da tre medici accreditati, di cui due psichiatri.
Fatto ancora più raro, l’Iran rilascia nuove carte d’identità. E’ l’ayatollah Ruhollah Khomeyni che ne è stato il fautore, legalizzando l’intervento chirurgico per mezzo di una fatwa promulgata nel 1983 in seguito al suo incontro con un giovane transessuale in pericolo.
Così, nonostante l’omosessualità sia considerata dalle autorità religiose come una “devianza sessuale”, un crimine punibile con frustate, addirittura con la pena di morte in caso di recidiva, la transessualità invece è ufficialmente riconosciuta come una malattia dell’identità.
“Un animo di donna infilato in un corpo di uomo o viceversa”, spiega il teologo della città santa di Qom, Mohammad Mehdi Kariminia, che lavora su una tesi che mette in accordo il transessualismo con la charia, l’insieme delle leggi islamiche.
Dato che i diritti e i doveri dei musulmani sono in parte determinati dal loro sesso, egli ritiene che il voler chiarire o definire l’identità sessuale non può essere considerato come un peccato.
Sharareh la transessuale così è riuscita a convincere sua madre, una musulmana praticante che esce di casa in chador e compie pellegrinaggi alla Mecca, che l’operazione le darebbe la possibilità di condurre “una vita rispettabile”.
Poichè fin dall’adolescenza Sharareh, che risiede in un quartiere popolare dell’est di Teheran, attira gli sguardi e viene schernita per il suo portamento effeminato.
In seguito si fa considerare “un cattivo ragazzo” e “un ossessionato dal sesso” allorchè, dando libero sfogo alle sue pulsioni, comincia a mostrarsi con le sopracciglia depilate e gli occhi truccati. “Avevo l’impressione di essere additata, ovunque mi triovassi, come se avessi un’enorme verruca sulla faccia”.
Sua madre gli chiede di “comportarsi normalmente”, di cercarsi una moglie “affinchè tutto questo gli passi.
“Una volta i miei genitori hanno combinato un appuntamento, e sono andata al cinema con la ragazza in questione, ricorda Sharareh. Nel bel mezzo del film lei mi ha preso la mano ed io ho lanciato un grido. Era ripugnante”.
Lei che si fa la doccia in slip per non vedere il suo sesso maschile e si considera “una donna incompresa” ha continue crisi isteriche, poi una depressione che la costringe a chiudersi in casa per quasi due anni.
Sua madre e le sue sorelle predicono per lei un avvenire solitario. Lei risponde di rimando: “Sola la sono già. Lasciate che mi faccia operare, e se continuerò a restare sola, per lo meno sarò in pace con me stessa”.
Poiché per i transessuali che hanno raggiunto una grande consapevolezza di sé, come nel caso di Sharareh, la scelta non è tra l’essere uomo o l’essere donna, ma piuttosto tra il venir percepita agli occhi degli altri come una donna oppure vivere una pietosa vita da androgino.
Oggi Sharareh è traboccante di fiducia. Col naso operato e il viso incipriato, si trova a suo agio nella pelle di una donna, pur vestita con l’abito islamico prescritto dal governo, poiché in una società in cui il mantello e il velo sono la manifestazione pubblica della femminilità, il loro impiego rappresenta una sua conferma agli occhi di tutti.
Essi diventano anche degli accessori di civetteria per Sharareh. Spiega inoltre che per strada non viene più molestata, protetta com’è dalla sua nuova connotazione di abbigliamento.
Il chirurgo Bahram Mir Jalali ha eseguito più di 370 interventi durante gli ultimi 12 anni. Costo minimo: 3.000 euro.
Un numero di interventi, secondo lui, più elevato in Iran che in Francia nello stesso periodo, nonostante il suo prezzo ritenuto considerevole (il salario medio di un funzionario nella capitale è di 200 euro al mese).
Lui ritiene che ciò sia in parte dovuto al tabù che circonda l’omosessualità. Sharareh non esita a dire che niente era per lei detestabile quanto il fatto di essere presa per un omosessuale.
“Il sesso per noi è secondario. Invece gli omo sono soddisfatti del loro corpo e del loro membro. Fanno sesso per puro desiderio, per il piacere”.
Alì diciannovenne, che prima era Nassrine, frequenta da quattro anni la sua compagna incontrata a scuola. “Personalmente mi sono sempre sentito un ragazzo – dice con tono battagliero – ma da qualcuno si era visti come degli omosessuali”.
Un motivo in più per andare sul tavolo operatorio? “Certamente” ammette Alì, in quel giorno accompagnato da suo padre e dalla sua ragazza per un check-up postoperatorio.
Nella voce di Ahmad Haeri, il padre, si può cogliere una nota di orgoglio. “Alì è sempre stato un duro: adesso è un vero uomo”,dice come per rimarcare il fatto che egli ha sempre avuto un figlio maschio e che oggi tutto è in regola, tutto va per il meglio.
Ben che vada c’è la pietà, mal che vada c’è il disprezzo
Comunque l’umore allegro e ottimista di Sharareh e di Alì rimane un’eccezione. Per molti altri transessuali, a dispetto dei 900 euro di prestito senza interesse che possono essere concessi dall’Organizzazione pubblica della salute, la vita rimane un calvario. “La transessualità non sempre viene ben compresa”, fa notare lo psichiatra specializzato Mehrdad Eftekhar.
In Iran, luogo un cui parlare pubblicamente di sesso è vietato e le informazioni attinenti alla sessualità non sono facilmente messe a disposizione della popolazione, poche persone sono sensibilizzate alla transessualità.
Mehrdad Eftekhar afferma anche che alcuni suoi colleghi non hanno conoscenze aggiornate e cercano di curare i pazienti consigliando loro di rivolgersi alla religione e prescrivendo loro una buona dose di pillole antipsicotiche.
Tra gli 800-1.000 transessuali censiti nel 2005 nel paese, quanti hanno la fortuna di essere capiti, accettati e sostenuti dalla famiglia e dalla cerchia dei parenti prossimi?
Nascondere i problemi, tentare di risolverli in privato e nello stesso tempo salvare la faccia in pubblico è uno dei tratti caratteristici della cultura iraniana. Per i transessuali l’intervento è il mezzo per rendersi accettabili dalla società.
E questo spiega l’ossessione di voler fare tabula rasa del proprio passato che hanno tutti quelli che hanno vissuto quest’esperienza. Su tutte le labbra, ritorna la stessa domanda: “Dimmi, in me si capisce?”
Alì-Reza, 25 anni, preferisce essere chiamato con il nome femminile Sayeh. Proveniente da una famiglia sfavorita, è cresciuto convinto di essere il solo al mondo ad avere “questo problema”.
“Mi disprezzava in nome dell’Islam, persuaso che io fossi una punizione di Dio e che portassi la vergogna sulla famiglia”, spiega Sayeh, scoprendo il braccio sinistro ricoperto da segni di bruciature: acqua bollente versata da suo padre in un momento di follia.
Dopo tre tentativi di suicidio seguiti poi da molte violenze, Sayeh, respinta dalla famiglia, vive oggi presso un’altra transessuale, una donna che cerca l’operazione inversa e con la quale dà inizio ad una storia affettiva “poichè è la sola che mi capisce”.
Occhi di cerbiatta e pelle diafana, Sayeh non ha ancora cambiato sesso, a causa della mancanza di soldi.
Ma lui che pensava che il farsi operare fosse il suo sogno, ultimamente non ci crede più: “Sarà soltanto un espediente cosmetico che non cambierà nulla nella sostanza”.
Nel frattempo Sayeh ha vissuto una storia d’amore che non è riuscita a dimenticare: un uomo che lei aveva ricoperto d’amore, di piccole cure e di attenzioni e che alla fine l’ha abbandonata col pretesto che non sarebbe mai stata “una vera donna”.
Cosa si augura attualmente? “Vivere in una società in cui mi venga dato un lavoro e in cui io sia rispettata pur sapendo ciò che sono”.
Testo originale: «Laissez-moi me faire opérer»