Le abitudini e le ossessioni sessuali della Roma antica
Articolo di Christian-Georges Schwentzel* pubblicato sul sito del settimanale Le Point (Francia) il 26 luglio 2018, liberamente tradotto da Valentina Picano
Nel saggio Les Femmes et le sexe dans la Rome antique (Le donne e il sesso nell’Antica Roma, Tallandier 2013) Virginie Girod, specializzata in Storia antica, ci offre un panorama vivente della sessualità femminile nell’epoca romana. Il testo è ancora più prezioso se pensiamo che le abitudini sessuali dell’Antichità hanno invaso l’immaginario comune, almeno a partire dal XIX secolo, attraverso la pittura, poi il cinema, e oggi nei fumetti e nei telefilm. Il mondo romano è spesso associato a immagini sulfuree e orgiastiche.
Ma qual era la realtà? Virginie Girod cerca di rispondere alla domanda, senza comunque denigrare le fantasie che fin dall’Antichità si sono cristallizzate sulla sessualità femminile. L’inchiesta è condotta su due fronti, che costituiscono due facce dello stesso tema: la studiosa si interroga sulla realtà storica delle donne, guidandoci fin dentro la loro intimità; ci mostra anche come gli scrittori romani, tutti uomini, abbiano costruito, attraverso le loro opere, una certa immagine della femminilità, che corrispondeva ai loro desideri.
Fantasie molto maschili
Il saggio è abbondantemente documentato. Virginie Girod sfrutta tutte le risorse disponibili: dalla letteratura agli oggetti della vita quotidiana, passando per le opere d’arte. Il tutto è scritto in modo molto piacevole e facilmente accessibile.
Si tratta di un affresco costituito da tre grandi quadri: «La morale sessuale femminile» delinea i ritratti di romani mitici; «Corpi femminili e sessualità» affronta senza tabù le pratiche sessuali ; «Madre e puttana» distingue le due principali categorie di donne nella società romana patriarcale.
È quello che potremmo credere quando contempliamo, usando parametri contemporanei, i numerosi dipinti erotici scoperti a Pompei. A lungo queste opere, come altri oggetti giudicati licenziosi, sono stati conservati al riparo in una stanza specifica nel Museo di Napoli, il cui accesso era interdetto alle donne e ai bambini.
Ma questa pornografia antica, ci spiega Virginie Girod, non era sentita come oscena : «L’oscenità, sotto forma di immagini o di parole, assumeva significati ben differenti nell’Antichità. Ciò che viene percepito come osceno oggi poteva allora avere un valore profilattico o catartico» scrive la storica.
Una diversa percezione dell’oscenità
In realtà, l’oscenità non esiste in quanto tale: è una percezione, una rappresentazione sociale. Per esempio, l’opera I fiori del male di Baudelaire al momento della pubblicazione fu considerata impudica, per poi diventare un capolavoro della letteratura francese. A giudicare dai numerosi dipinti ritrovati a Pompei, potremmo ingenuamente pensare che la città non era altro che un vasto bordello. Certo, si poteva trovare un lupanare decorato da dipinti pornografici, ma anche molte dimore, più o meno ricche, esponevano dipinti lascivi agli occhi di tutti, residenti e invitati.
Non c’erano stanze segrete nelle dimore pompeiane. Sono gli autori cristiani come Tertulliano che stravolgono la percezione dell’erotismo, trasformando la celebrazione della vita in offesa al pudore: «Sotto la pressione del Cristianesimo, il corpo erotico sarebbe stato sempre più spesso nascosto e denigrato».
Matrone e prostitute
Fondamentalmente la società romana non era egualitaria. Oggi le leggi sono le stesse per tutti: a Roma, tutto dipendeva dallo status giuridico dell’individuo: diritti, doveri e comportamenti si differenziavano radicalmente in base al fatto che una donna fosse coniuge di un cittadino oppure una schiava. Tra i due poli gravitavano altri status, più ambigui, come i liberti, ovvero gli schiavi ai quali era stata resa la libertà, ma che restavano comunque sottomessi ai loro vecchi padroni.
Le donne sposate, chiamate matrone, dovevano possedere tre qualità essenziali, precisa Virginie Girod: castità, fedeltà e fecondità. Non si trattava affatto di astinenza sessuale, ma la moglie, donna di casa, doveva dedicarsi esclusivamente al marito. Quando usciva di casa, doveva coprirsi con vestiti ampi che dissimulavano le forme, in modo da far comprendere la sua indisponibilità sessuale. La fertilità era vista come la più grande qualità fisica delle matrone; i romani ammiravano particolarmente le donne che avevano partorito più di dieci o dodici volte.
Le prostitute, al contrario, si facevano carico della sessualità ricreativa e non riproduttiva. Erano viste come oggetti sessuali. Facevano ricorso a diversi accessori in modo da aumentare il loro potenziale erotico. La nudità integrale non sembra che eccitasse molto i romani, che preferivano i corpi femminili ornati di gioielli, o circondati da catene che misuravano spesso diversi metri di lunghezza. Amavano anche fare l’amore con ragazze che indossavano unicamente un reggiseno. Probabilmente si cercava di dissimulare la flaccidità o l’eccessivo volume dei seni, in un’epoca dove gli uomini apprezzavano seni piccoli e sodi. Secondo un’altra ipotesi, il pezzo di stoffa eccitava il partner in quanto suggeriva l’atto di denudarsi in corso; il reggiseno costituiva una sorta di «ultima barriera», scrive la storica.
Pratiche sessuali codificate
I romani, come i greci, distinguevano due tipi di partner sessuali: l’uomo dominante che penetrava sessualmente, e la persona dominata che veniva penetrata, che si trattasse di una donna o di un ragazzo. Ma, contrariamente a ciò che viene a volte scritto, non si tratta di un’opposizione tra essere attivi e passivi. Il dominante poteva essere passivo e la persona dominata attiva, come la donna che cavalca l’amante in una posizione chiamata «cavallo erotico». È chiaro che il cavaliere, che tuttavia viene visto come dominato, era lontano dall’essere attivo durante la cavalcata.
Virginie Girod consacra un capitolo molto dettagliato a pratiche sessuali che evoca senza falso pudore. Si apprende che i romani adoravano i baci, più o meno soavi. Baciavano spesso le prostitute in bocca, come preliminare.
L’orgasmo vaginale rientrava soprattutto nella sessualità di coppia, in quanto l’obiettivo principale del matrimonio era la procreazione. Ma le prostitute aprivano la loro vagina ai clienti, con il rischio, quando rimanevano incinte, di essere temporaneamente indisponibili. Sodomia e fellatio permettevano di sfuggire a queste conseguenze.
«Una coniuge legittima è nata libera e non doveva praticare la fellatio.» Questo compito era riservato alle prostitute e agli schiavi di entrambi i sessi. Fellatori e fellatrici erano socialmente disprezzati; per questo i due termini servivano da insulti. Virginie Girod cita dei graffiti ritrovati a Pompei sorprendenti, come «Secundilla fellatrix» («Secundilla la fellatrice»). Un equivalente lo si trova ancora, ai giorni nostri, nei bagni pubblici. Più sorprendente ancora: «Sabina fellas, non belle faces» («Sabina pratichi fellatio, ma non le fai bene»).
«Lecca-vagina»: l’insulto supremo
Se la fellatio è vista come degradante, il cunnilingus è considerato ancora peggio, la persona che lo pratica si trova nella posizione di un cane. «Lecca-vagina» era uno dei peggiori insulti che si potevano sentire a Roma.
Il poeta latino Marziale (Epigrammi IX) si lamenta di un servitore obbligato a leccare la sua padrona; vomitava ogni mattina. Alcuni ricche romane possedevano anche dei giochi erotici viventi: compravano dei bei schiavi, che castravano in modo da beneficiare del piacere sessuale senza rischiare di rimanere incinte, come racconta Giovenale (Satire VI)
Ci fermiamo qui. L’immenso merito del libro di Virginie Girod è di mettere in luce, attraverso uno stile semplice e di piacevole lettura, una storia romana intima e confidenziale, spesso ignorata. Lettore pedante, astieniti.
* Christian-Georges Schwentzel è professore di storia antica all’università della Lorena.
Testo originale: Les Romains étaient-ils des obsédés sexuels ?