Teoria gender? Le cose da sapere quando si parla di genere
Articolo pubblicato sul sito cattolico Témoignage Chrétien (Francia) il 30 settembre 2013, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
Il genere è diventato una posta in gioco notevole per la società. Eppure nei media resta accantonato tra le fantasie sulla “teoria di genere”, senza quasi preoccuparsi dello spirito critico… I ricercatori hanno invero tentato di rettificare i termini stessi del dibattito, come Pauline Delage su Médiapart: “Proprio perché il genere è una questione politica, rimane sotto il fuoco della critica e oggetto delle fantasie della destra e dell’estrema destra” e aggiunge “quando Vincent Peillon [deputato europeo e ministro dell’Educazione socialista n.d.t.] spiega di essere ‘contro’ la ‘teoria di genere’ – riprendendo l’espressione impiegata dall’opposizione reazionaria – lo stupore lascia spazio alla collera.”
Oppure, ultimo in ordine di tempo, un collettivo composto da un centinaio di ricercatori che firma un manifesto pubblicato su Libération “per finirla con le fantasie di tutti i generi”. Ma non serve a nulla. Le fantasie resistono, rilanciate in massa dai social network, riprese poi dai politici o dai semplici cittadini, lontani dall’immaginare la malafede che le ha date alla luce.
Allora la teoria di genere è una teoria delirante che nega la differenza biologica dei sessi? Un’ideologia insidiosa che vuole sovvertire l’ordine stabilito? O, molto semplicemente, uno strumento concettuale efficace per meglio cogliere la realtà, allo stesso modo dei concetti di classe o di età nelle scienze umane e sociali? Prima di tutto dobbiamo comprendere bene che il termine di origine inglese “gender” non designa una teoria ma un campo pluridisciplinare e non unificato di studi che hanno in comune l’obiettivo di analizzare con uno sguardo nuovo i classici oggetti delle scienze umane e sociali come il lavoro, l’educazione, la politica, la sessualità, sotto un particolare e nuovissimo prisma: quello della differenza e delle disuguaglianze dei sessi. Questo prisma d’analisi ha conosciuto ovviamente un primo lustro con i movimenti femministi.
Ma, dopo un periodo “militante”, gli studi che ad esso si ispirano si sono largamente istituzionalizzati. In Franca, dove la ricerca rimane divisa per discipline, tale istituzionalizzazione è partita da due discipline-faro: la storia e poi la sociologia.
Negli Stati Uniti, dove la ricerca si svolge essenzialmente per tematiche, sono stati creati dei dipartimenti unificati in una prospettiva interdisciplinare, da cui il nome “gender studies” come già esistevano i “media studies” etc.
Ecco così che la denominazione “studi di genere”, traduzione letterale di “gender studies”, si è alla fine imposta in Francia a scapito di altre come “studi sui rapporti sociali dei sessi” – troppo tecnica – o “studi femminili” – troppo restrittiva, poiché gli studi di genere si interessano tanto agli uomini quanto alle donne.
Al di là della grandissima diversità di punti di vista, di oggetti di studio e di preconcetti teorici, gli studi di genere si appoggiano su quattro principii comuni, secondo il Manuel des études sur le genre (Manuale degli studi sul genere) apparso presso De Boeck, editore rinomato nel campo delle scienze sociali.
In primo luogo, gli studi di genere pongono tutti, al centro della realtà sessuata, la distinzione tra biologico e culturale (il che non significa la loro separazione nella realtà).
Questa distinzione ha l’effetto di “snaturare”, di “de-essenzializzare” le caratteristiche che attribuiamo in maniera spontanea a ciascuno dei sessi. Questo principio d’analisi è euristico, efficace, perché ha permesso di mostrare che molti dei comportamenti e dei modi di vedere che si credevano naturalmente “femminili” o “maschili” sono in realtà socialmente e storicamente costruiti, nel senso che si evolvono e differiscono secondo le culture. Come diceva già Simone de Beauvoir, precursore degli studi sul genere, “Non si nasce donna, lo si diventa”.
In secondo luogo, gli studi di genere invitano a un approccio relazionale dei sessi, il che permette di mostrare che gran parte delle caratteristiche del mascolino e del femminino sono istituite attraverso delle operazioni di opposizione e non esistono indipendentemente da questa relazione di opposizione.
In terzo luogo, concepiscono le relazioni sociali tra i sessi anche come delle relazioni di potere, vale a dire che i sessi non sono solamente diversi ma anche storicamente e socialmente gerarchizzati.
È quello che aveva mostrato con forza l’antropologa Françoise Héritier con il concetto di “valenza differenziale dei sessi” o il sociologo Pierre Bourdieu parlando di “dominazione maschile”, prima ancora dell’esplosione mediatica sugli studi di genere. È proprio per questo che il “ragazzo effeminato” o, all’inverso, il “maschiaccio” sono mal visti.
In quarto luogo, concepiscono questo rapporto di potere tra i sessi all’intersezione di altri rapporti di potere, come i rapporti di classe, di “razza”, di “orientamento sessuale”, d’età etc. Essere una donna bianca o nera, oppure impiegata o operaia, rende diverse le esperienze di genere.
È vero che il termine “gender” italianizzato sembra poco esplicito, e soprattutto ridondante rispetto al termine “sesso”. In realtà non è proprio così. Rimane il fatto che pretendere di assegnargli un senso definitivo non è possibile, perché gli autori di questi studi lo utilizzano in molti modi diversi.
Molto all’ingrosso, il termine può assumere due sensi a seconda delle correnti e degli autori, un senso che potremmo definire minimalista e un altro massimalista. Nella maggior parte degli studi esso designa, se così si può dire, il “sesso sociale”, vale a dire le differenze tra uomini e donne che non sono dovute alla biologia. In questo caso ci sono tanti generi quante sono le maniere di essere uomo o donna.
Di qui la preoccupazione teorica che ha condotto certi autori, come Christine Delphy o la tanto screditata Judith Butler, a riconcettualizzare il concetto. Il genere diventa, nei loro libri, non una sorta di “ideale di me” individuale che si impone in maniera diversa agli uomini e alle donne bensì il principio stesso di organizzazione di queste norme differenti.
Il genere, in questa versione massimalista, è quindi il sistema di relazioni sociali che produce i sessi sociali. Le parti divise, il femminino e il mascolino, non formano la spiegazione bensì ciò che è spiegato dal genere. Il genere è allora il rapporto socio-storico che formula e divide la società in sessi distinti e gerarchizzati.
Come ogni griglia di lettura, il genere permette di rendere visibili delle realtà precedentemente trascurate, difficilmente oggettivabili o totalmente ignorate. Per esempio, mentre la Rivoluzione francese era percepita come un momento forte della democratizzazione, gli studi storici di genere hanno largamente relativizzato questa percezione, mostrando come le donne fossero state allora escluse dalla cittadinanza (private del diritto di suffragio e di eleggibilità) e sottolineando, a scapito della loro esclusione, la loro partecipazione all’azione rivoluzionaria.
Ma “gli studi sul genere non si riducono a un semplice apporto di conoscenza“ dichiarano gli autori del manuale già citato “perché, inducendo a mettere in discussione le fondamentali categorie di analisi delle discipline costituite, essi hanno una portata più generale”. Per riprendere l’esempio della Rivoluzione francese e della democratizzazione, a partire dal momento in cui si è preso in considerazione l’accesso tardivo delle donne al suffragio le analisi in termini di genere non mettono in discussione niente di meno della periodizzazione della storia francese fin qui accettata.
Ed è senza dubbio questo il loro punto debole. Queste rimesse in discussione, quando abbandonano la sfera scientifica per arrivare al popolino, urtano inevitabilmente sensibilità e visioni del mondo consolidate.
Come diceva Louis Pasteur, “Un po’ di scienza allontana da Dio, molta vi riconduce”. Sembra essere decisamente il caso degli studi di genere che, se messi in caricatura o mal digeriti, producono rifiuto e disgusto, mentre se ben compresi nella loro complessità offrono un impressionante sapere emancipatorio.
Testo originale: Un genre d’études bien mal connu