Le domande del credente di fronte alla sofferenza dell’innocente
Riflessioni del pastore Alessandro Esposito tratte dal settimanale Riforma del 11 novembre 2010
Giobbe: testo abissale, libro che fa tremare nell’intimo chiunque ne scorra le pagine. Giobbe il contestatore, Giobbe il ribelle.
Giobbe che non accetta le risposte preconfezionate della teologia del suo tempo, Giobbe che non si fa problemi a chiamare in causa Dio, chiedendogli spiegazioni. Molto avremmo da imparare da Giobbe.
Eppure, più spesso, lo scansiamo: lo giudichiamo irriverente; un insolente, un presuntuoso, uno che ha perso il senso della misura, osando chiamare Dio sul banco degli imputati.
Egli non lo convoca per un motivo qualsiasi, ma per il motivo, l’unico per il quale valga davvero la pena di scomodarlo, di afferrarlo per il bavero pretendendo udienza: la sofferenza dell’innocente.
Molti pii e benpensanti trovano fuori luogo questo atteggiamento e lo sconsigliano, perché, in verità, lo temono: chiamare Dio a rispondere della sofferenza?
Ma è pura follia: bisogna farsene una ragione, accettarla supinamente. Ma Giobbe non ci sta: protesta, non vi si rassegna come dinanzi ad un qualcosa di inevitabile.
Al contrario, si appella a Dio e gliene chiede ragione. E ritiene di averne tutti i motivi: non vede alcuno scandalo nel suo domandare. Lo scandalo, per lui, sta altrove: nel patimento di chi soffre ingiustamente.
Gli amici, dal canto loro, lo rimproverano aspramente, difendendo con convinzione quella che è la teologia tradizionale, secondo cui il dolore che si patisce è conseguenza di un agire iniquo: per cui, se Giobbe sta soffrendo, qualcosa deve averla fatta.
Si tratta, dunque, di riconoscerlo dinanzi a Dio (ma, in verità, dinanzi a loro): e questo, immediatamente, porrà fine ai suoi tormenti.
Giobbe, ancora una volta, non ci sta: contesta questa «teologia dei princìpi», così sicura di sé e così insensibile di fronte ai tormenti dell’uomo.
E dice senza titubanza: non sono io nell’errore. Ad essere sbagliate sono questa teologia e la sua logica tanto stringente quanto priva d’amore.
La sofferenza dell’innocente, Giobbe, proprio non può accettarla: non lo soddisfano le risposte preconfezionate dei sempre solerti teologi, quelle che immancabilmente eludono la domanda, perché la precedono.
Sono risposte sempre pronte per l’occasione, valide in ogni circostanza: ed è proprio questo ad irritare Giobbe, che apostrofa questi uomini sicuri di sé, questi avvocati di Dio, con l’appellativo di consolatori molesti.
Perché Giobbe è disturbato assai più che confortato dalla loro ansia di difendere l’indifendibile, di prendere le parti di Dio.
Dal canto suo, per non bestemmiare Dio, Giobbe preferisce accusarlo: è il suo modo di dirgli che non ha ancora perso la fiducia in Lui, nonostante tutto.
Il suo non è atto di rinnegamento, come credono gli amici teologi: al contrario, è gesto di riconoscimento, richiesta di spiegazione.
I pii religiosi, gli avvocati di Dio, di ieri come di oggi, si affrettano a redarguire chi, come Giobbe, si permetta di levare la propria protesta sino a Dio: per loro si tratta di un atteggiamento inconcepibile, di un vero e proprio atto di protervia.
Con Dio, per loro, non si discute: a Dio, soltanto, si deve obbedienza, in riverente, ossequioso silenzio.
Chi protesta, a giudizio di costoro, offende la preghiera mediante il ricorso alla propria limitata intelligenza delle umane cose, come rinfacciano a Giobbe gli amici.
Per Giobbe, invece, la domanda e l’accusa rappresentano la più sincera preghiera rivolta a Dio da parte di un uomo che non intende ritirarsi dal Suo cospetto prima di aver ottenuto da Lui, da Lei, una risposta ad interrogativi legittimi e a motivate inquietudini.
Avremmo bisogno della tua audacia, Giobbe, del tuo domandare incessante e impertinente: ma per essere capaci anche noi di levare una protesta come la tua, dovremmo prima avere la tua fede.
Una fede che non risparmia a Dio le critiche e le perplessità, una fede che domanda. Spesso, invece, predichiamo una fede che sembra essere il luogo delle risposte certe, una fede lontana dall’uomo e dalle sue inquietudini, proprio perché intende fornire loro una risposta prima ancora di ascoltarle.
Fino a quando non restituiremo alla fede la sua dimensione interrogante, le sue radici inquiete, non potremo presentare a Dio la nostra protesta: né chiedergli ragione del perché l’innocente soffra ed Egli, inspiegabilmente, lo permetta.
Senza una fede che continui ostinatamente a domandare non saremo neanche capaci di provare sgomento e compassione di fronte al silenzioso dolore di Dio che, in un muto abbraccio, si stringe al nostro.