Le donne, l’amore e la scoperta de “L’altra parte di me”
Dialogo di Katya Parente con Cristina Obber
Scrittrice, giornalista, formatrice esperta di violenza di genere e diritti presso scuole e università, ordini professionali e aziende. Questo un breve profilo di Cristina Obber, la poliedrica ospite di oggi.
Partiamo dai tuoi libri: scrivi sempre dal punto di vista delle donne. Perché questo sguardo così particolare?
Parlo molto di donne in quanto donna, ovvero soggetto ben consapevole delle maggiori difficoltà che noi donne e ragazze incontriamo ancora oggi, qualsiasi sia la nostra strada, la nostra scelta. Mi piace raccontare la forza delle ragazze, la loro ribellione di fronte a una società che tenta ancora di zittirle e di inscatolarle dentro etichette e ruoli pre-costituiti, dentro recinti ben delineati, così come tenta di fare con i giovani maschi che non sottostanno al modello patriarcale, ma non ci riesce.
In realtà, nell’ultimo libro che uscirà a primavera con Settenove, i capitoli si alternano con le voci di Stella e Jacopo, proprio perché volevo dare voce a un personaggio maschile che rompe con lo stereotipo del bello e dannato, ma rappresenta tanti giovani che hanno spezzato le catene della cultura che hanno ereditato e si stanno inventando un modo tutto loro di vivere la coppia, l’amore e la sessualità.
Il libro che più ha attirato la mia attenzione, visto anche la tematica di questo sito, è stato “L’altra parte di me”. Ci parli un po’ di questa fiaba sui generis?
“L’ altra parte di me” è una storia d’amore, di scoperta, di rivendicazione. Dal primo bacio, alla prima volta, l’amore tra Giulia e Francesca cresce piano piano, e diviene per Francesca scoperta di sé, affermazione della propria identità di ragazza che impone al mondo la sua libertà e le sue scelte.
Un mondo pieno di contraddizioni ma anche di amore, l’amore che muove, un volersi andare incontro, e che significa, non senza attraversare il dolore, e per tutti i soggetti coinvolti, cambiare e crescere. Volevo raccontare che aprire lo sguardo sui propri pregiudizi è un percorso di liberazione personale, ancor prima che sociale.
Volevo raccontare che, anche se il nostro Paese ancora fatica a riconoscere l’omosessualità come una delle tante possibilità di desiderare, la felicità è possibile, è dietro l’angolo per tutti e tutte noi, e dobbiamo andarcela a prendere.
Sono felicissima, ma proprio felicissima che, grazie ad Agedo Nazionale (con un progetto Miur) questo libro stia per diventare uno spettacolo teatrale, in allestimento a Milano con l’associazione Teatro 2, che lavora da anni nelle scuole. Spero davvero che a giugno potremo tornare a teatro, mi sono emozionata assistendo ai provini per la scelta delle protagoniste, sarà davvero coinvolgente ritrovarmi seduta in sala.
Il libro “L’altra parte di me” è dedicato alle adolescenti. Hai scritto anche un paio di libri per i lettori più piccoli…
In questi anni ho incontrato migliaia di ragazzi e ragazze nelle scuole di tutta Italia, soprattutto medie e superiori. Dopo tante discussioni, confronti, confidenze in messaggi privati, mi sono resa conto di quanto sia fondamentale entrare nella scuola con l’educazione di genere sin dall’infanzia, per raccontare che i disagi non vanno taciuti, e per proporre ai più piccoli nuovi modelli di parità e libertà.
Così per Settenove (casa editrice indipendente che si occupa di cultura di genere) ho pubblicato due libri, “W i nonni” e “Giro Girotondo”, che hanno come protagonisti sorellina e fratellino che si chiamano Giorgia e Giorgio.
“W i nonni“ è stato considerato da alcuni un libro «gender», perché c’è una donna che aggiusta i computer mentre il marito fa la spesa, o una bambina che gioca a calcio, “Giro Girotondo” perché uno dei personaggi si chiama Riccardo e ha una maglia con un cuore rosa con le paillettes. C’è molta strada da fare, ma dobbiamo pensare a quella già fatta e non scoraggiarci.
“Giro Girotondo” è ispirato a casi reali di bullismo, ma è un libro gioioso, e ha avuto il patrocinio di Amnesty International Italia. Entrambi i libri sono stati adottati in alcuni laboratori nelle scuole dell’infanzia, in alcune sono stata invitata ed è stato bellissimo stare a terra a colorare ed incollare, o fare girotondi nei cortili delle scuole, quando ci si poteva tenere per mano serenamente. Mi mancano queste cose.
Ci parli del progetto «ToBeSafe» e del tuo ruolo di formatrice?
«ToBeSafe» è un percorso di formazione e prevenzione su molestie sessuali e discriminazioni, rivolto ad aziende, enti e società sportive. Lo curo con il Telefono Rosa e la fondazione Assosafe, che si occupa di sicurezza sul lavoro, appunto, perché il concetto di sicurezza oggi comprende anche il benessere psicologico.
Abbiamo diritto di lavorare sereni, al riparo non solo da disparità di trattamento o ricatti sessuali, ma anche da battute sulle mestruazioni, le disabilità, le tette, i froci eccetera eccetera. «ToBeSafe» significa cominciare a parlare di linguaggi, cercando insieme di riconoscere gli stereotipi che si incontrano nel quotidiano e che ci condizionano anche se non vorremmo, imparando anche ad apprezzare i passi avanti che si sono fatti e che vanno valorizzati, come le pubblicità inclusive che si rivolgono oggi a nuove forme di famiglia.
Fare prevenzione significa promuovere l’attenzione reciproca, l’empatia, perché a volte basta cambiare “postura” per vedere le cose in modo diverso, a cominciare da colleghi e colleghe. Ad ogni incontro ho la conferma che le persone non aspettano altro che la possibilità di confrontarsi su quelli che sono da secoli i dubbi e i quesiti, i disagi quasi sempre taciuti. Inoltre diamo molte informazioni anche su quelli che sono i nuovi linguaggi nel web, perché hate speech, revenge porn, body shaming girano sui social ma anche all’interno delle chat di lavoro.
Abbiamo strutturato il tutto in ottica di sostenibilità, con costi contenuti, certificando le aziende con la AGD (Against Gender Discrimination); le aziende accedono così a delle agevolazioni sul premio Inail, e il loro impegno ha un ritorno anche in termini economici a breve termine.
Portare una formazione di genere nei luoghi di lavoro permette di raggiungere migliaia di persone che non seguono questi specifici temi, ma quando sono stimolate a dire la loro, quando sono coinvolte, ne sono contente. A volte le cose non accadono semplicemente perché non ci impegnano abbastanza per farle accadere.
Il rispetto, il riconoscimento reciproco, quel «Io ti vedo» che fa più di mille parole, sono valori essenziali e irrinunciabili, e stare bene non è solo un desiderio, è un diritto.
Grazie a Cristina Obber e al suo lavoro educativo a 360 gradi. Un modo ulteriore per dire che cultura, educazione e sensibilizzazione sono le carte migliori da giocare per un mondo più accogliente ed inclusivo.