Le due vite di Daalib. Essere un ragazzo gay a Mogadiscio
Testimonianza di Daalib, un ragazzo gay di Mogadiscio (Somalia), raccolta da Alessandra Maria Starace*, prima parte
Daalib non è il mio nome, ma potete chiamarmi così. Forse, un giorno, potrò raccontarvi la mia vita senza dovermi nascondere; potrei anche postare una foto di me mentre sorrido in riva al mare in inverno, coi pantaloni arrotolati fino alle ginocchia, i piedi che mi si gelano nell’acqua fredda e mi fanno venire la pelle d’oca; oppure una foto in cui abbraccio il mio fidanzato, quello che devo ancora trovare.
Ma ora no, non posso dirvi come mi chiamo, perché ho paura. E, leggendo il seguito, capirete anche perché io – e molti ragazzi con alle spalle una storia analoga alla mia – possono rivelare tutto di sé, tranne il nome.
Sono un ragazzo somalo, nato 27 anni fa a Mogadiscio. Nel 2016 sono sbarcato a Lampedusa, in Italia, su uno di quei barconi di cui i telegiornali parlano spesso.
Conoscete la mia Terra? Ne avete sentito parlare?
Beh, se vi è mancata l’occasione, lasciate che ve la mostri io usando il filtro che è stato la mia vita, l’esser venuto al mondo e l’aver vissuto per tutta l’infanzia, l’adolescenza e una parte della mia esistenza di giovane gay a Mogadiscio.
A Mogadiscio c’è la guerra da trent’anni, eppure la gente sorride sempre. Se hai bisogno d’aiuto, la maggior parte delle persone si fa in quattro per darti una mano, s’inventa un modo per sostenerti anche se tutti – o quasi – hanno poco o niente da offrirti in fatto di ricchezze materiali. La mia Terra è baciata da un sole meraviglioso che ti mette addosso il buonumore, e ti “bacia” talmente forte che, qualche volta, devi rifugiarti sotto gli alberi che i bombardamenti hanno risparmiato e riprendere fiato dal caldo troppo intenso.
Il cibo scarseggia e la guerra, nata prima di me da quelle parti, ha peggiorato la situazione: uno dei miei primi ricordi è che da piccolo avevo sempre il dito in bocca per la fame e, a causa di questo, mi sono rovinato i denti.
Mio padre riparava biciclette ma non guadagnava quasi niente; mamma la mattina usciva dicendo: «Vediamo se oggi riesco a portare qualcosa da mangiare a casa». Noi – i miei fratelli, le mie sorelle e io – aspettavamo. Qualche volta il pranzo arrivava e lo stomaco si riempiva, qualche altra volta no. Sarà per questo che ricordo così bene il sapore della frutta: per esempio, mi piaceva molto il mango, se ne trovava qualcuno su qualche albero e, anche se non era abbastanza maturo, potevi far colazione con quello spargendoci sopra un po’ di sale.
Nonostante la miseria, siamo andati a scuola tutti nella mia famiglia. E lì sono iniziati i primi “sintomi” del mio essere parecchio fuori dalle righe.
Dovete sapere che fin da bambino mi è sempre piaciuto vestire bene, e per bene intendo in modo ordinato. Mi alzavo presto e mi lavavo accuratamente perché volevo essere pulito e profumato, poi mi stiravo gli abiti con cui uscivo di casa perché, anche se non ero ricco, quelle erano cose che potevo fare per me stesso, e quindi le facevo.
I miei fratelli erano sempre molto polemici su questo: mi dicevano che avevo atteggiamenti da donna e non da uomo; invece mia madre e i professori apprezzavano i miei modi: l’ordine, la precisione e il mio voler studiare con impegno e costanza. Certamente tutto questo, se da un lato mi fruttava buoni voti ed elogi, dall’altro cominciava a far ricadere su di me sospetti più che fondati riguardo il mio orientamento. Man mano che crescevo le cose diventavano sempre più chiare sia per me che per tutti gli altri.
A Mogadiscio, con un’accusa o anche semplicemente un’ipotesi di omosessualità, vai in carcere e, di sicuro, non arrivi al giorno dopo.
La popolazione è al 100% musulmana e il Corano detta una legge che non si discute; io avevo avuto in dono il destino beffardo di nascere gay in uno di quei Paesi in cui l’idea di due uomini o due donne che si amano non è neanche lontanamente pensabile.
Ne avevo sentito di storie in cui, per togliere dalla circolazione una persona che non riscuoteva le sue simpatie, un tizio era andato alla polizia e aveva detto: «Guardate che il tal dei tali è… uno di quelli». Neanche un’ora dopo l’accusato si era trovato davanti a un giudice che, anche solo col minimo sospetto che la cosa potesse essere fondata, aveva ordinato l‘incarcerazione del malcapitato e poi, durante la notte, i picchiatori della polizia avevano fatto il resto.
E siccome non era improbabile che qualcuno si accorgesse che io ero gay sul serio, oltre che per le bombe cominciai a convincermi d’esser nato nel posto sbagliato per un altro motivo.
Questo non vi faccia pensare che a Mogadiscio i gay non ci siano o non s’incontrino; al contrario, ce ne sono e s’incontrano.
Infatti, arrivò il momento in cui anch’io mi sentii pronto per conoscere altri ragazzi – con le dovute precauzioni – e cominciai a frequentare i luoghi segreti sulla spiaggia e quelli storici della città in cui sapevo che nella discrezione della tarda sera si riuniva il popolo LGBTQIA+ . C’erano dei ragazzi dai modi fastidiosi, e quando si approcciavano io li evitavo; altri invece erano gentili e romantici e mi piacevano molto. Ma il problema era e rimaneva sempre lo stesso: avevo paura, ce l’avevamo tutti, perché in Somalia, se sei omosessuale, sei di fatto un criminale.
I ragazzi, però, non erano certo il mio unico interesse. Approfittando della generosità di mio zio, che viveva e lavorava negli Emirati Arabi e che mi mandava l’equivalente di 80 euro al mese, mi iscrissi alla Facoltà di Medicina.
Ma, fin dal primo anno, le cose cominciarono a mettersi male per me.
Frequentavo un ragazzo all’epoca, uno di quelli capaci di nascondere benissimo la propria omosessualità, al contrario di me. A causa dei miei modi ritenuti troppo delicati per appartenere a un uomo, un amico mi disse che in giro si cominciava a vociferare che io ero proprio “uno di quelli”.
A quel punto, decisi che era ora di andar via da Mogadiscio e dalla Somalia, abbandonando così la mia Terra e tutti i miei progetti, perché non si può vivere, crescere, studiare e realizzarsi con la paura costante di essere ammazzato perché ti muovi, ti pettini e ami in modo diverso dalla maggior parte delle altre persone. Lo dissi al mio ragazzo che volevo andar via; lui non ne volle sapere di seguirmi ma io, ormai, avevo deciso.
Nel 2015 raccattai i miei pochi averi, i miei spiccioli, i miei documenti e partii; attraversai l’Etiopia, il Sudan e arrivai in Libia.
E – da quel momento – cominciò per me l’Odissea della Speranza.
… (continua)
* DUE VITE è un progetto di Alessandra Maria Starace e dei volontari del Progetto Gionata per raccontare le vite dei migranti LGBT+ spesso in fuga da Stati dove la guerra, l’intolleranza e l’omotransfobia uccide. Vorremmo raccogliere e raccontare le loro storie dimenticate per mostrare le difficoltà ma anche gli incontri che gli hanno cambiato la vita, perché ricordiamo che ognuno di noi può sempre fare la differenza nell’accogliere l’altro, perché “chi salva una vita salva un mondo”. Vuoi aiutarci, vuoi raccontarci la tua storia o di una persona a te vicina? Scrivici a gionatanews@gmail.com