“Le maldicenze” di Flavia Biondi. Quando il fumetto diventa queer
Dialogo di Katya Parente con la fumettista Flavia Biondi
Fiorentina, classe ’88, Flavia Biondi è una giovane ragazza dal viso pulito e dal sorriso accattivante. Di mestiere scrive fumetti che raccontano storie di vita quotidiana. La intervistiamo in occasione della pubblicazione di “Le maldicenze”, che raccoglie due graphic novels molto coinvolgenti.
Parlaci un po’ di te…
Sono un autrice di fumetti. I miei libri più recenti sono usciti in Italia per Bao Publishing. I protagonisti delle mie storie sono solitamente millennials impegnati a confrontarsi con il mondo che li circonda.
Nelle mie storie parlo del rapporto fra generazioni diverse, la coppia, il ruolo della donna, i diritti civili e il racconto delle città, dai piccoli paesi sperduti alle strade di Bologna. Insomma di tutto un po’, quel che riguarda lo scontrarsi con l’inizio o con il procedere di quel che in qualche modo ancora oggi significa “diventare adulti”. Se ancora vuol dire qualcosa.
Perché ripubblicare, dopo dieci anni, le due storie che compongono Le Maldicenze?
Credo che queste storie siano ancora estremamente attuali e che – nonostante siano passati anni da quando le ho disegnate – siano ancora oggi capaci di trasmettere ai lettori i sentimenti che le hanno animate. Barba di Perle e L’orgoglio di Leone, i due racconti contenuti nell’antologia Le Maldicenze, sono state le mie due storie di esordio.
Uscirono dieci anni fa per un piccolo editore, e ho sempre sperato di avere l’opportunità di farle conoscere ad un pubblico più vasto. Avere avuto questa possibilità mi ha reso estremamente felice.
Cosa è cambiato nel mondo queer in questi dieci anni?
Direi che è cambiata principalmente la percezione del mondo queer. Si è ampliata soprattutto la portata della discussione, soprattutto per quanto riguarda la narrazione dei media come il cinema, le serie televisive, la tv, ecc. Dieci anni fa tutte le storie raccontavano solo di coming out o di omosessualità, e c’era ancora una grande abbondanza di finali tristi e di amori infelici.
Oggi il dialogo è sempre più positivo ed inclusivo: si parla di non binarietà, di identità di genere, asessualità, di orientamento relazionale, e si includono sempre più minoranze. La narrazione, come la società, sta lentamente dando spazio sempre a più voci. Ed è bello che tutti abbiano maggiore spazio per raccontare il proprio sentire.
Leone e Thomas sono due giovani uomini gay. Le loro storie sono confinate nel mondo rainbow, o parlano anche ai lettori etero?
Credo che le queste storie possano parlare a chiunque, indipendentemente dall’orientamento sessuale. I sentimenti che le popolano sono universali: si parla della paura del giudizio altri, di insicurezza, di bisogno di affermazione. Della lotta di accettarsi per come si è. È comune ad entrambe le storie la spinta e il bisogno dei protagonisti di crescere e di migliorare il rapporto con se stessi. Credo che sia un desiderio che accomuni tutti noi.
Secondo te esiste un tipo di arte che si possa definire queer?
Certamente che esiste, anche se ovviamente è un etichetta così vasta – e che avvolge realtà così diverse fra loro – che non si può dare facilmente una definizione netta. Per me personalmente è queer tutta quell’arte che da lo spazio di esprimersi al sentire delle persone che si identificano in questa definizione.
Forse ho sbagliato domanda. Perché non c’è un’arte queer. L’arte stessa è queer: cosa c’è infatti di più strano e sovversivo di esprimere il proprio sentire in modo assolutamente personale, magari stravolgendo qualche regola ben codificata?