Le nuove famiglie e la Chiesa Valdese
Intervento tenuto da Paolo Ribet al convegno Refo-FDEI su “La realtà delle nuove famiglie nelle Chiese e nella società” (Milano, 16 Novembre 2013)
UN PO’ DI STORIA. Il tema del matrimonio e della famiglia non è nuovo nel quadro delle discussioni all’interno della Chiesa valdese.
Già negli anni ‘50/’60 vi erano stati dei campi studio sull’argomento ed esiste ed è ancora vigente un documento approvato nel 1971 in cui viene esaminata l’intera materia (denominato RO.M/1971), con particolare attenzione a quanto affermato solo un anno prima dalla Chiesa cattolica attraverso il Motu Proprio di papa Paolo VI intitolato Matrimonia Mixta.
Nella prima parte del documento sinodale si esamina la natura del matrimonio e della famiglie e si afferma che «il matrimonio, che si presenta a noi quale istituzione fondamentale della condizione umana, è stato vissuto dagli uomini in modi diversi a seconda dei tempi nelle differenti società» (art. 1).
Dunque, la definizione che ne viene data è molto ampia e aperta alle diverse forme che questo istituto può assumere nel corso del tempo.
Nella seconda parte, la più ampia, si affronta il problema dei matrimoni interconfessionali polemizzando con toni abbastanza forti nei riguardi della posizione cattolica, e infine nella terza parte si affronta brevemente il tema del divorzio.
In seguito, altri documenti ufficiali hanno affrontato questo argomento, in special modo, l’Intesa fra lo Stato Italiano e la Tavola Valdese del 1984 e il documento comune della Chiesa cattolica e la Chiesa valdese del 1997.
Si segnala anche un documento delle Chiese battiste del 2004.
Dunque, le chiese protestanti hanno detto qualcosa in questi anni; ma è altrettanto vero che la società italiana è cambiata in modo molto rapido, tanto da rendere velocemente obsoleta ogni dichiarazione nello spazio di pochi anni.
COME SIAMO ARRIVATI A QUESTO DIBATTITO. Nel 2010 c’è stata un’ulteriore accelerazione data dal fatto che, di fronte alla benedizione dell’unione di due donne avvenuta nella chiesa valdese di Trapani, il Sinodo ha ritenuto di dover prendere posizione – e lo ha fatto approvando un ordine del giorno in cui si autorizzano tali benedizioni, a ben precise condizioni.
Questa presa di posizione ha posto alla Chiesa una serie di interrogativi (oltre a quello della liceità di coppie dello stesso sesso, che non viene accettata da molti settori del mondo evangelico) non più aggirabili: che cos’è la benedizione di una unione matrimoniale? Si fanno benedizioni di unioni che non abbiano valore civile? Di che cosa parliamo, quando parliamo di famiglia?
Tutta questa problematica è stata sintetizzata dal moderatore Bernardini, il quale, intervistato da Adista nel 2012, ha affermato: «Dopo la nostra decisione sinodale che ha accolto la possibilità di una benedizione ecclesiastica per le persone dello stesso sesso che si impegnino in un progetto di coppia stabile e fedele, ci siamo resi conto che non potevamo più parlare di famiglia al singolare ma di famiglie al plurale, non solo per riconoscere la realtà omosessuale, ma anche per riconoscere le ormai molteplici forme familiari eterosessuali».
Il Sinodo del 2011, al termine della discussione sul tema della benedizione delle coppie di fatto, ha anche votato il seguente atto (n. 44): «Il Sinodo, considerando opportuna una riflessione approfondita su famiglia, matrimonio e coppie di fatto, invita la Tavola a nominare una commissione che ne affronti i diversi aspetti teologici, ecclesiologici e regolamentari in vista di una prossima discussione sinodale».
N:B: La Tavola Valdese ha aperto sul suo sito una cartella dedicata a questa commissione, in cui si possono ritrovare documenti e discussioni sull’argomento e da cui ho tratto diverse parti di questa relazione.
LA RIFLESSIONE. Come è abitudine presso le chiese protestanti, la riflessione etica parte da un duplice punto di partenza: l’analisi della situazione storica e il riferimento biblico – inteso quest’ultimo non tanto come la ricerca dei versetti che possono fondare una certa posizione, quanto piuttosto la ricerca della fedeltà al messaggio complessivo della Bibbia.
A) Il dato biblico. È indubbio che la famiglia occupa un ruolo assolutamente centrale nella società descritta nella Bibbia; ma è altrettanto chiaro che non esiste un solo modello di famiglia, in quanto si passa dalla realtà poligamica del tempo dei patriarchi, all’innumerevole stuolo delle mogli del re Salomone, alla famiglia monogamica del tempo di Gesù.
Nel Nuovo Testamento, poi abbiamo la perentoria affermazione di Gesù il quale vieta il divorzio (ma meglio sarebbe dire il ripudio – Marco 10:1-10 e paralleli) a cui fa eco però l’affermazione dell’apostolo Paolo il quale afferma, di fronte ad una situazione che certamente Gesù non poteva immaginare, che il credente può anche divorziare, qualora il coniuge non credente volesse lasciarlo, perché, dice Paolo, la sintesi della legge che dobbiamo adempiere è che «Dio ci ha chiamati a vivere in pace» (I Corinzi 7:15).
Come leggiamo la Bibbia? Di fronte alle situazioni nuove, il credente deve dunque prendersi la responsabilità di assumere delle posizioni e delle decisioni che sembrano contraddire la lettera della Parola di Dio, ma che ne confermano la sostanza.
Questo sembra essere il caso delle decisioni riguardo al “pianeta famiglia” e in modo particolare per quanto attiene le coppie dello stesso sesso. Infatti l’omosessualità di cui si parla nella Bibbia e che è, senza alcun dubbio, condannata è una realtà molto diversa rispetto a ciò di cui discutiamo oggi – in modo particolare rispetto ai progetti di vita insieme che molte coppie gay desiderano costruire.
Su tale argomento mi paiono illuminanti le parole del prof. Sergio Rostagno: «La discussione sulle coppie omoaffettive e sui loro diritti si avvale spesso della formula biblica di Genesi 1, 27: «E Dio creò l’uomo a sua immagine: ad immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò». Non dimentichiamo però anche Matteo 12,49 : «E indicando con la mano i suoi discepoli, [Gesù] disse: Ecco mia madre e i miei fratelli.»
La famiglia tradizionale viene di solito dichiarata naturale perché fondata sull’unione di maschio e femmina. Vogliamo discuterne anche in sede teologica? Nella teologia del XX secolo si può trovare l’affermazione secondo cui la costituzione umana nella forma del maschio e femmina ha un valore programmatico e fondamentale; si indica questo con una parola tedesca che vuol dire: costituzione fondamentale del genere umano. Ora a proposito di ciò che è fondamentale si può fare una duplice osservazione:
a) Gn 1, 27 può anche voler dire che l’essere umano ha la sua essenza costitutiva non in una autofinalità, e neppure in un riscontro metafisico, in un assoluto comunque definito, ma nella reciprocità. Non è insomma fine in sé, ma rapporto aperto e quindi indeciso. A prova di tale visione il testo invoca la sussistenza nei due sessi. Ma la «forma fondamentale» è nella reciprocità (carne della mia carne: Gn 2, 23; non è bene che Adamo sia solo: 2, 18), più che nella sessualità in sé. Non tutti lo ammetteranno, ma la cosa appare sostenibile.
b) Si può inoltre obiettare a chi voglia fare della famiglia tradizionale un dato naturale e perciò fondamentale, in primo luogo che tra naturale e fondamentale non sussiste nessun rapporto evidente; in secondo luogo che anche Gesù, richiesto “chi sia la sua famiglia”, risponde indicando i discepoli.
Questo gesto indica che la reciprocità, nella visione di Gesù, può essere più fondamentale che la familiarità. Per i motivi suddetti concludiamo: Il fatto di dare maggior valore programmatico alla reciprocità, comprendendo anche l’atteggiamento delle coppie omosessuali, relega in second’ordine il dato biologico del sesso».
Insomma, anche qui noi dobbiamo mettere in discussione il concetto di natura (che non è in bianco e nero) e verificare se la forma che la struttura sociale denominata famiglia ha assunto nel tempo sia un dato naturale o culturale.
B) Il dato teologico protestante: per i protestanti il matrimonio non è sacramento, ma dono buono di Dio. Non è inserito nell’ordine della salvezza, ma nell’ordine della creazione. Importante ma non immutabile. Non è un dato di fede, ma è comunque un dato che tiene conto del nostro rapporto che l’altro e con Dio.
«Secondo la Chiesa valdese il matrimonio è una realtà della buona creazione di Dio, diventata una istituzione fondamentale della società umana, che i credenti ricevono e vivono come un “dono” (I Cor. 7:7): “nel matrimonio i coniugi credenti attuano come coppia la loro vocazione cristiana”, vivendola “quale espressione particolare dell’amore del prossimo e dell’alleanza di grazia che lega i credenti al loro Signore”» (doc comune 2.1).
Questo fatto, da un lato semplifica le cose, ma dall’altra le complica. Le semplifica perché non crea tutta quella serie di legami che avviluppano la dottrina del matrimonio nel mondo cattolico (con il contorno di sacra rota, dispense ecc.), d’altra parte, però pone la domanda sul perché di una cerimonia e sul suo significato non solo storico, ma anche teologico. Perché dal punto di vista storico, quando erano i registri delle parrocchie che fungevano da anagrafe, i passaggi fondamentali della vita passavano dalla chiesa: nascita (battesimo), matrimonio e morte (funerale).
Questo vale però dal punto di vista sociologico, mentre dal punto di vista teologico è molto discutibile. Fino ad un paio di generazioni fa era indubbio che il matrimonio segnasse un punto di svolta nella vita dei nubendi: uscivano (soprattutto la donna) dalla propria famiglia per costituirne una nuova. Anche dal punto di vista sessuale (almeno in teoria) era uno snodo importante.
Per cui invocare la benedizione del Signore su un percorso nuovo di vita aveva un senso molto forte. Ma oggi? Queste constatazioni devono aiutarci a riposizionare la dottrina del matrimonio e a rinnovare il vocabolario; senza cadere, però, nel rischio di sminuire la portata della dimensione di coppia nella vita umana.
Vanno inoltre notate due cose: per correttezza, in casa protestante non si dovrebbe mai parlare di matrimonio religioso, in qunto il matrimonio è un atto civile. Si tratta piuttosto di benedizione nuziale. Infatti, in campo protestante non si fanno (di regola) i cosiddetti “matrimoni di coscienza”.
In modo particolare nel documento comune cattolico – valdese, si afferma: «la Chiesa valdese non attribuisce rilevanza ai matrimoni senza effetti civili, la cui celebrazione è espressamente prevista dalla normativa cattolica».
C) Il dato giuridico
La riforma del diritto di famiglia. Di fronte ai vigorosi cambiamenti negli anni ’60 del novecento nel costume, nelle abitudini, nella vita di relazione, nella concezione della sessualità e nei rapporti generazionali, il diritto ha completamente modificato il modello e l’idea stessa di famiglia. Gli interventi più incisivi che hanno rispecchiato quei cambiamenti sono stati la legge sull’adozione del 1967 (che ha messo al centro del vincolo adottivo il diritto del bambino ad avere una famiglia e non viceversa), la legge sul divorzio del 1970 (con la quale l’interesse alla saldezza del gruppo ha cessato di prevalere su quello dell’individuo a decidere del proprio destino) e, infine, la riforma del diritto di famiglia del 1975 che ha eletto a caposaldo dell’unione familiare il consenso e la collaborazione dei suoi membri finalmente in posizione di parità formale e sostanziale.
Dalla famiglia istituzione alla famiglia di eguali. È dunque evidente il passaggio, nell’arco di una cinquantina d’anni, da una famiglia-istituzione, dove i ruoli corrispondevano a degli status, ad una famiglia di eguali, dove la scelta dell’unione si potesse fondare su un patto e sulla capacità dei suoi membri di vivificare il rapporto rinnovando il proprio consenso nelle decisioni quotidiane. È in questo nuovo quadro che hanno trovato gradatamente piena dignità giuridica i figli naturali, le coppie in seconde nozze e le famiglie di fatto non solo per necessità ma anche per scelta.
Non si può negare – anche alla luce della nostra Costituzione – che la famiglia fondata sul matrimonio conservi una sua primogenitura: ma l’esperienza e la storia (anche biblica) dimostrano come la primogenitura non rappresenti di per sé una garanzia per una buona discendenza.
La famiglia fondata sul matrimonio resta dunque un modello rilevante. Ma, ormai, non può più essere considerato un modello privilegiato o, addirittura, unico. Da tempo la stessa Corte costituzionale ha affermato che la stabile convivenza tra due o più persone – anche dello stesso sesso – costituisce una «comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico» così come prevede l’art. 2 della Costituzione: a ciascuno dei componenti di quella famiglia, ancorché non basata sul matrimonio, «spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione [anche] di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri» (Corte costituzionale n. 138/2010). Questo significa che oggi non può esserci comunità familiare meritevole di tutela che non sia fondata sul rispetto della personalità dei suoi membri.
Diritti della personalità. È il reciproco rispetto dei diritti della personalità che ci permette di leggere sotto luce nuova i doveri che garantiscono la fertilità e la durata dell’unione familiare: l’assistenza morale, l’assistenza materiale, la coabitazione, la collaborazione e la fedeltà.
In questa prospettiva le esigenze del singolo devono accordarsi con quelle degli altri membri. Ma una famiglia intesa come luogo di espressione dei diritti della personalità non può permettere che la persona sia privata dei suoi diritti fondamentali: alla riservatezza, all’uso del proprio corpo, alle relazioni sociali e affettive, al lavoro, alla libertà di manifestare il proprio pensiero, di associarsi e, non da ultimo, alla libertà religiosa.
Dal contratto al patto. Se durante il novecento abbiamo assistito all’evoluzione della famiglia da un modello istituzionale a uno “contrattuale”, nel terzo millennio assistiamo certamente ad un ulteriore sviluppo verso una famiglia (o meglio verso una pluralità di esperienze familiari) capace non solo di garantire ma anche di promuovere i diritti delle persone che la animano.
Per questo le persone potranno soddisfare le proprie legittime aspettative di unione e convivenza con i propri affetti non solo attraverso il contratto matrimoniale ma anche mediante “patti” laddove la legge li preveda (sopratutto nei casi in cui – come avviene per le relazioni omoaffettive in Italia – il matrimonio sia precluso).
Genitorialità e cultura della responsabilità. La fine del modello unico della famiglia legittima è ancora più evidente se guardiamo alle funzioni genitoriali. Tra gli anni ’60 e gli anni ’80 del novecento la genitorialità naturale e quella adottiva hanno ottenuto la stessa dignità di quella riconosciuta alla genitorialità legittima. Anzi: la famiglia fondata sul matrimonio è stata un modello di riferimento così da garantire sia ai figli naturali che ai bambini in stato di abbandono il massimo di stabilità e, sopratutto, la cura di due genitori di sesso diverso.
Le possibilità della tecnica e i progetti genitoriali che si sono imposti socialmente nei decenni successivi ci costringono, però, a fare i conti con almeno tre prospettive tutt’altro che improbabili: 1) la possibilità che un figlio possa essere concepito o partorito già con l’intenzione di garantirgli un solo genitore; 2) la possibilità che un figlio abbia genitori dello stesso sesso; 3) la possibilità che un figlio abbia più di due genitori. Queste possibilità non dipendono da eccessi narcisistici ma dai drammi che attraversano le relazioni affettive del nostro quotidiano, oggi come negli episodi più antichi della storia biblica (Sara/Agar e Rachele/Bila): si pensi all’orfanità prevedibile a causa di una malattia, al mancato riconoscimento di uno dei genitori, all’opposizione di un genitore al riconoscimento dell’altro ritenuto inidoneo, alla sterilità unilaterale, all’orientamento omoaffettivo tardivamente dichiarato o scoperto.
In tutti questi casi – ed altri ancora – sono in gioco diritti di personalità volti non già a distruggere o compromettere la famiglia ma a costituirne una che non necessariamente integri i caratteri tipici del modello tradizionale che ha attraversato due buoni secoli di storia.
Di fronte a questa legittima aspirazione di libertà il diritto non può rispondere con regole “forti”, con una disciplina “dura” ma con regole dirette a creare possibilità di sostegno, decisioni più consapevoli, una cultura della responsabilità e della procreazione.
Come proseguire nella riflessione. Chiese e matrimonio nel XXI secolo. Già la riflessione degli anni ’60 e ’70 aveva portato a constatare che «non esiste un matrimonio cristiano, ma un modo cristiano di vivere il matrimonio» e nello stesso documento sinodale sul matrimonio si considerava ovvio che le forme venissero date dalla società civile. La realtà che noi viviamo – ed in cui si situa necessariamente anche la nostra riflessione – è oggi quella di una pluralità di atteggiamenti che può disorientare, ma da cui non si può prescindere se si vuole che il nostro discorso rimanga ancorato all’esistente e non si perda nell’empireo delle formule o dei desideri.
Ambivalenza dei mutamenti familiari. Già dalla fine degli anni ’80, ad opera delle ricerche guidate, tra gli altri, dal sociologo Pierpaolo Donati (per altri versi criticabile), emergono forti spinte di cambiamento per quanto concerne il tema della famiglia: «La famiglia si sta trasformando secondo tendenze e direzioni che portano verso quella che si può definire la “famiglia autopoietica”.
Questo termine, che può essere brevemente tradotto come “famiglia che genera da sé le proprie strutture”, indica la profonda ambivalenza dei mutamenti familiari odierni.
La famiglia si fa sempre più norma a se stessa: essa sfugge la società, nel doppio senso di essere fonte originaria di normatività e di andare per proprio conto, ossia di “eccedere” le aspettative istituzionalizzate della società. La politica pubblica è disegnata e perseguita in modo da lasciare sempre più spazio alle preferenze e ai comportamenti soggettivi dei singoli, e ciò come processo insieme intenzionale e sistematico». Vi è dunque una pluralità di forme e di approcci alla costituzione di una famiglia.
Sorgono pertanto alcune domande: le chiese hanno una forma che sia loro peculiare o devono/possono accettare le varie forme che le persone si danno in modo autonomo? Le chiese devono disciplinare e riconoscere le diverse forme familiari o devono limitarsi a indirizzare la loro predicazione verso la singola persona perché viva all’interno della coppia una relazione fondata sull’amore di Cristo?
Perché il matrimonio. Riprendendo la definizione data poco sopra, secondo cui non esiste un matrimonio cristiano, ma un modo cristiano di vivere il matrimonio, occorre quindi chiarire che il tema centrale per la chiesa non è tanto la forma del matrimonio, ma la sua sostanza. La domanda che oggi viene posta non è “quale matrimonio”, ma “perché il matrimonio”?
Sarà utile, allora, riflettere su quali fossero gli scopi del matrimonio nel passato, non solo nel pensiero giuridico, ma anche in quello etico e religioso (nel sentire comune), per poter comprendere gli atteggiamenti che vengono assunti oggi. Non c’è bisogno di essere degli specialisti per notare come fra gli scopi più importanti del matrimonio fino a tempi molto recenti vi fossero il contenimento e la regolazione della sessualità e la preservazione della proprietà – anche se si possono porre altri valori accanto a quelli citati, quali, ad es. la cura e la protezione degli anziani o dei bambini.
Da un paio di generazioni non è più così e al centro si è imposto l’amore tra due persone. La proprietà e la sessualità hanno assunto valori e categorie loro proprie; non si tratta più, dunque, di avere un modello stabile che garantisca l’attribuzione e la cura della prole o che garantisca la proprietà.
Per questo motivo molti, oggi, rifiutano, per amore, ogni legame che sappia di costrizione o di imposizione. In una parola, per garantire la relazione rifiutano il matrimonio – cioè la certificazione pubblica della loro unione, con tutte le garanzie e i vincoli che questo dato contiene.
In Italia si nota come il legislatore (anche perché bloccato dalle ferme prese di posizione della CEI e da un notevole deficit culturale) sia molto più restio che quello di altri Paesi a seguire gli sviluppi della società e a comprendere le motivazione profonde degli atteggiamenti emergenti.
Le chiese di fronte alla pluralità di unioni. Nello stesso tempo, si ha l’impressione che la Chiesa valdese abbia di fatto incamerato (o subito) i mutamenti occorsi in questi anni senza appoggiarli ad una riflessione profonda e condivisa, ritenendo che il documento del 1971 fosse sufficientemente elastico da comprendere le nuove realtà che andavano comparendo anche nelle nostre chiese.
L’insufficienza di questa riflessione comune è emersa in modo chiaro negli ultimi anni. Su queste tematiche si può citare, a titolo di esempio, il caso del divorzio che nel documento del 1971 veniva considerato come un realtà che non si dà per il credente, ma che viene accettato per la società civile (art. 55), mentre un numero sempre maggiore di credenti passa attraverso questa difficile prova, che non sempre viene superata senza ferite anche gravi – o basti pensare alla questione delle coppie omoaffettive, che quarant’anni fa non si poneva neanche come orizzonte possibile di riflessione.
Una nuova grammatica delle relazioni. È certamente difficile porre dei punti fermi in una situazione quanto mai fluida e controversa, tanto che la famiglia, che in alcuni settori della società viene vista come l’unico baluardo sicuro contro il crollo delle fondamenta della società, viene in altri ambiti denunciata come il luogo in cui avviene il maggior numero di violenze, fisiche o psicologiche. Non è un caso che di recente sia nato un nuovo vocabolo per denunciare proprio la violenza contro le donne, il “femminicidio”, tanto che la filosofa Michela Marzano ha potuto affermare che «bisogna riscrivere la grammatica delle relazioni».
Conclusione. Accanto ai problemi sociologici e giuridici (che coinvolgono solo in parte la riflessione della chiesa) vi è più importante il problema delle relazioni – che va rivisto a fondo. Quanto è importante la durata in una relazione?
Nella Chiesa valdese vi è chi afferma che siamo pronti per benedire tutto – a me non sembra una posizione che tenga conto della complessità della situazione e del fatto che il percorso va compiuto il più possibile tutti insieme. Certo, vi è l’impazienza degli omosessuali che da secoli sono emarginati. Ma i colpi di mano non facilitano certo la comprensioni.
La benedizione delle coppie omosessuali ha preso la ribalta perché ha fatto scandalo. E qualcuno pensa che questo problema sia ormai risolto e con ciò sia chiusa la partita. Ma a mio avviso non è così: è la famiglia che è in discussione, come intreccio di relazioni: il rapporto uomo-donna, il rapporto genitori – figli, il numero dei figli … e via discorrendo
Quindi il percorso da compiere è ancora lungo perché non si tratta qui di scrivere un bel documento che segni il cammino giuridico da seguire; ma si tratta di incidere nelle coscienze delle persone per costruire nuovi percorsi di relazione e un nuovo sentire.