Le omosessualità. “Noi” e gli altri”
Testo della teologa Regina Ammicht Quinn** (Germania), pubblicato su Concilium, rivista internazionale di teologia, anno XLIV, fasc.1, 2008, pp.13-19
1. Le identità: Le questioni intorno all’identità sono anche le domande fondamentali del nostro tempo, e questo vale per la vita personale, sociale e globale. Nell’esistenza individuale spesso le identità non sono ciò che è semplicemente “dato”, ma vanno scelte e trovate. Nella vita politico-globale la creazione di un’identità comune può essere la base dell’appartenenza e, con questo, diventare il punto di partenza della protesta contro la discriminazione e il sospetto di un determinato gruppo di persone: “noi” neri, minatori, dalit, donne, formiamo un “noi” e lottiamo per i nostri diritti.
Nello stesso tempo una sottolineatura dell’identità può divenire un terreno favorevole all’esclusione, alle inimicizie, alle illusioni o alla guerra: “noi” di questa città, di una data popolazione, con questa religione specifica, definiamo gli “altri” come “altro”.
Felix Wilfred, che si presenta qui nella veste di nuovo presidente di Concilium, definisce i problemi dell’identità, in tutta la loro ambivalenza, come un segno attuale del nostro tempo: possono favorire la vita, ma anche diventare un sintomo di malattia, in quanto «sindrome di una singola identità» (Wilfred).
«Le identità sono in larga misura plurali»: così si esprime Amartya Sen, Premio Nobel indiano[1].
“La stessa persona può essere, senza la minima contraddizione, di cittadinanza americana, di origine caraibica, con ascendenze africane, cristiana, progressista, donna, vegetariana, maratoneta, storica, insegnante, romanziera, femminista, eterosessuale, sostenitrice dei diritti dei gay e delle lesbiche, amante del teatro [ … ]. Ognuna di queste collettività, a cui questa persona appartiene simultaneamente, le conferisce una determinata identità. Nessuna di esse può essere considerata l’unica identità o l’unica categoria di appartenenza della persona”[2].
Quando le persone si riducono a un’unica, singola identità si costituisce un sistema di classificazioni, secondo la religione o la cultura, secondo la nazione o la razza o la preferenza sessuale. Queste classificazioni hanno potere sugli esseri umani, riducendoli, “miniaturizzandoli”, e hanno la possibilità di diventare violente nel corso di questo processo:
“L’arte di costruire l’odio assume la forma dell’invocazione del potere magico di una determinata identità, spacciata per dominante, che soffoca le altre affiliazioni e può arrivare anche, in una forma adeguatamente bellicosa, a sopraffare qualsiasi simpatia umana o naturale benevolenza di cui possiamo normalmente essere dotati. [ … ] L’idea che le persone possano essere classificate unicamente sulla base della religione o della cultura è un’importante fonte di conflitto potenziale nel mondo contemporaneo. La credenza implicita nel potere predominante di una classificazione unica può incendiare il mondo intero”[3]
2. Le omosessualità
Le “omosessualità” costituiscono il tema di questo numero della rivista [Conciliuum]- argomento che va concepito “in larga misura al plurale” e che comprende un vasto campo di autopercezioni e di pratiche di Vita. Insieme queste sono, specialmente nel modo occidentale di comprenderle, segnato dal cristianesimo, un aspetto della predisposizione di molti strati d’identificazione. Quello rivolto alle persone che hanno una preferenza sessuale, per quanto questa sia manifesta, verso individui del proprio sesso è sovente uno sguardo di desiderio e al tempo stesso di svalutazione. Ed è così perché la sessualità verso persone dello stesso sesso è equiparata ad un piacere senza limiti e privo di conseguenze cui si guarda con invidia e disprezzo.
Questo modo di vedere le cose identifica quel genere di individui oltre la loro sessualità (o meglio, oltre gli organi sessuali del/la loro partner), mentre le persone eterosessuali sono rappresentate da una pluralità di qualità e dati di fatto come la razza e la classe, i talenti e la professione, la nazionalità e la geografia, la condizione sociale ecc. Ora, tale definizione unica, singola è una violenza.
Vista così l’omosessualità, intesa quale atteggiamento e caratteristica che segna un’identità, è un concetto nuovo dal punto di vista storico e non” globalizzato”. La costante della storia dell’umanità, in base a cui le persone dello stesso sesso appaiono come partner sessuali o coppie di amanti, ha condotto a una vasta estensione di forme, di significati e di valutazioni sia nella storia del cristianesimo sia nell’arcipelago delle Samoa.
I conflitti sull’omosessualità seguono di regola tre modelli fondamentali: il primo è quello della fecondità mancante o rifiutata; in questo caso omosessualità e aborto sono sovente trattati in un unico contesto e non solo dalla politica sessuale nazionalsocialista[4].
Il secondo modello è l’identificazione di “sodorniti” o “omosessuali” con l’eccesso sessuale e il puro piacere, cose che per altri sono irraggiungibili, desiderate di nascosto e pericolose.
Il terzo è costituito dal turbamento di un ordine gerarchico naturale o inteso come tale. Per il contesto antico – e qui si può citare come esempio Filone – gli atti sessuali non vengono giudicati moralmente “giusti” o “sbagliati” a seconda del sesso del o della partner; sono altri fattori ad avere maggiore importanza, come per esempio l’evitare gli eccessi e soprattutto il problema della “gerarchia”, inteso come domanda su chi assuma il ruolo attivo e su chi quello passivo. Il ruolo passivo era accettabile per quanti erano “naturalmente” sottoposti: le donne, gli schiavi o i giovani che ancora non erano cittadini; gli atti sessuali tra uomini liberi adulti diventavano in questo modo problematici.
In questo concetto di omosessualità le donne sono invisibili, mentre la concezione stessa poggia su una logica di ostilità per la donna e funziona come rifiuto del “femminile” nella comprensione di sé e dell’altro da sé maschile. In questo modo l’approccio di pensiero che risulta decisivo è la questione della “normalità” dell’eterosessualità per cui, nei mondi di vita postmoderni, possono valere in egual misura tutti e tre i modelli fondamentali di conflitto: il rifiuto della fecondità, un rapporto sessuale “senza conseguenze” e un difetto nell’ordine gerarchico inteso in senso naturale.Il presente numero di Concilium ha dunque per tema “le omosessualità”. Detto questo va trovata un’impostazione che permetta una nuova riflessione sul materiale tradizionale.
3. Omosessualità e chiesa
Nel cristianesimo l’omosessualità venne sempre indicata come peccato. L’idea retrostante è quella del matrimonio eterosessuale fondato sul diritto naturale, in cui la sessualità viene giustificata per mezzo della fecondità. In determinati contesti cristiani l’omosessualità sembra essere il fenomeno con cui cerca di definirsi la morale cristiana: “cristiano” è ciò che rifiuta l’omosessualità – in un mondo in cui si fanno guerre e genocidi, carestie e ingiustizie. Questa equiparazione di morale cristiana e condanna dell’omosessualità si fonda di regola sull’uso “disordinato” degli organi genitali.
Un primo passo per procedere da qui in avanti è fatto là dove come nel Catechismo della chiesa cattolica (1992) – si dice che le persone omosessuali non possono essere sottoposte a «ingiusta discriminazione» (n. 2358).
A prescindere dal fatto che questa formulazione sembra suggerire che esiste anche una discriminazione giusta e giustificata tra le persone, questo riconoscimento è un momento importante. Ma è un passo nella direzione sbagliata: è una mossa verso l’identificazione o il rafforzamento di una categoria segregante.
«Rispetto, compassione, delicatezza» – così il Catechismo devono essere dimostrati nei confronti degli «omosessuali». Compassione” e “delicatezza” sono spesso atteggiamenti per le persone che soffrono una grave mancanza o la cui umanità stessa viene definita una carenza.
L’invito al “rispetto” di “tali” persone appare dunque una forma retorica in cui si pretende il rispetto, ma si presuppone anche la disistima. Essa solidifica un essere-altro classificato di qualità morale inferiore e rende possibile la segregazione dei “non normali” tra “noi”.
4. La «decolonizzazione delle mentalità»
Amartya Sen vede una via d’uscita dalla trappola delle singole identità in una «decolonizzazione delle mentalità». Una mentalità colonizzata agisce su entrambi i fronti: quello che esercita il dominio e quello che lo subisce. La propria identità si sviluppa sempre nel delimitare lU’altro”: sia che io rivendichi per me una normalità dominante sia che io debba accettare fino all’incapacità di vivere o fino al suicidio una mancanza di valori attribuitami da una maggioranza oppure che capovolga radicalmente la valutazione dominante e conferisca all”‘altro” solo un disvalore. Tutti questi sono tentativi violenti di stabilire delle identità e delle classificazioni singole, uniche.
Una «decolonizzazione delle mentalità» è l’uscire dalle mere classificazioni. Quest’opera deve comportare delle conseguenze politiche, economiche, sociali e religiose in un mondo che come sempre è diviso tra “noi” e “loro”.
Una «decolonizzazione delle mentalità» deve riguardare questo numero di Concilium su “le omosessualità”. Siamo coscienti che il tema sollevato nell’ambito delle chiese cristiane – e specialmente della chiesa cattolica – è una questione difficile.
Qui l’omosessualità ha una tradizione oscura anche se presentata con chiarezza; è spesso trattata quale argomento della morale sessuale come peccato ed è fondamentalmente legata alla paura. È un tema prevalentemente trattato finora con una mentalità “colonizzata”, ovvero con l’aiuto di classificazioni chiare, di condanne morali e di identità singole.
Un modo “decolonizzato” di percepire, di pensare e di parlare delle omosessualità non ha come obiettivo la presentazione di una “minoranza”, di un gruppo di individui, che sono “altro” e nei confronti dei quali i “normali” devono comportarsi in modo accogliente. In primo luogo non si tratta di cambiare la valutazione della categoria del’omosessualità” (da “cattiva” a cosa “non così brutta”; da “ripugnante” a “per la verità, del tutto bella”).
Le nostre domande sono di tutt’altro genere: con quali valori misuriamo tali categorizzazioni? Perché pare che ne abbiamo bisogno? Che ruolo ha la religione cristiana nell’interrogarsi sulla categorizzazione e sulle possibilità di far saltare questo modo di pensare? Sono i “dis-ordinati” queer studies [studi sulle devianze”]*, che superano i confini e fanno saltare le classificazioni, a percepire e a considerare la ricchezza del pensiero e della vita di tutti gli esseri umani.
Le nostre riflessioni sulle “omosessualità” non sono perciò i pensieri di studiosi di morale su atti sessuali specifici e neppure il ripensamento di teologi liberali sugli “altri”.
È un riflettere di esseri umani su esseri umani, sui loro rapporti, i loro desideri, il provare piacere, la loro partecipazione e il loro contributo alla ricca e complessa esistenza umana. È la riflessione di individui su altri individui e la considerazione di una forma precisa del desiderare che è assolutamente più pericolosa di un desiderio omosessuale: quello di fissare “altri” su di una identità singola screditata allo stesso tempo, e di aprire con questo le porte alla violenza.
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1. K. SEN, Identity and Violence, Norton & Co., New York – London 2006,19 [traduzione italiana Identità e violenza, Laterza, Roma – Bari 2006, 21].
2. ibidem, XIII [trad. it. cit., IX].
3. Ibidem, XV [trad, it. cit., XIIIs.].
4. Heinrich Himmler istituì nell’ottobre del 1936 l’Ufficio centrale per la lotta all’omosessualità e all’aborto. Suoi compiti erano «registrare e contrastare attivamente» queste due «epidemie nazionali». A partire dal 1940 gli omosessuali condannati in base al paragrafo 175 per aver sedotto «più di un partner» furono, una volta dimessi dal carcere, deportati nei campi di concentramento. Contemporaneamente fu applicato lo strumento della carcerazione preventiva nei confronti di cerchie sempre più ampie di uomini omosessuali e di donne lesbiche. I gruppi di persone giudicate come socialmente incapaci erano «individui che, a motivo di uno stile di vita immorale, non rientrano nella società nazionale […] Vi appartengono prostitute di strada, protettori, chi compie delitti contro la pubblica morale, omosessuali, ecc.» (B. JELLONNEK, Homosexuelle unter dem Hakenkreuz, Schòningh, Paderborn 1990, 134-139; C. SCHOPPMANN, Nationalsozialistische Sexual politik und weibliche Homosexuauidi, Centaurus, Pfaffenweiler 1991, 208-214).
* [Quello a favore delle “devianze”, delle “a-normalità”, delle persone “ir-regolari” (queer), emerso negli anni Novanta del secolo scorso, è un ampio movimento le cui teorie sono influenzate da Michel Foucault e dai decostruzionisti, e basate specialmente sui lavori femministi di critica all’idea di genere e sull’analisi gay e lesbica della sessualità. Tale movimento amplia le sue prospettive fino il inglobare ogni attività o identità sessuale considerata non normativa e dunque deviante (bisessuali, intersessuali ecc.). Molti teorici queer sono creatori di una ricca diversità di opere che testimoniano l’ampia diffusione di questo genere di studi, che ha pure un suo filone teologico (queer theologJJ) (N.d.T.)].
** REGINA AMMICHT QUINN, firma questo editoriale a nome degli altri curatori di questo fascicolo di Concilium (ovvero Marcella M. Althaus-Reid, Erik Borgman e Norbert Reck). Insegna etica teologica presso il Centro intrauniversitario per l’etica nelle scienze, presso l’Università di Tubinga (Germania).