Le paure che ci abitano
Articolo di Angelo Casati pubblicato in “Servitium”, n. 238 di Luglio/Agosto 2018
Permettete che faccia una riflessione previa sulla mia presenza qui oggi, con voi.
Vi confesso che questo invito fattomi da Luciano Gualzetti proprio non me lo aspettavo. Ho tentato anche di resistere. Ancora oggi mi lascia interdetto. Che cosa ci fa qui un vecchio prete, senza specifiche competenze? Un po’ sorridendo mi sono detto che siccome alle Caritas stanno a cuore quelli che vanno lenti come stanno a cuore al pastore le pecore stanche e ferite — sono stato chiamato io che sono uno dei rallentati, un gesto affettuoso di compassione.
Poi ho pensato al passo di Gioele, ripreso da Pietro dopo la pentecoste. Che parla di vecchi che fanno sogni. Mi sono detto: parlerò di qualche sogno. Però il sognare, nel testo, presupponeva l’effusione dello Spirito. Non mi restava che augurarmi di non fare troppo velo allo Spirito. Ecco il testo, bellissimo, che riguarda me, ma riguarda anche tutti voi. Mi piace pensarvi così:
Dopo questo
io effonderò il mio Spirito
sopra ogni uomo
e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie
i vostri anziani faranno sogni,
i vostri giovani avranno visioni.
Anche sopra gli schiavi e sulle schiave
in quel giorni effonderò il mio Spirito (Gioele 3, 1-2).
Ed eccomi qui, a parlare di paure.
La mia non è una relazione o non vorrebbe esserlo, dopo le parole di Luciano che ricordano tracce di cammino e dopo le parole del nostro nuovo vescovo che ripete l’invito a non lasciarci rubare la speranza. E che bello — lasciatemi dire — che un vescovo inizi il suo mandato fra noi scandendo più volte le parole, ormai un po’ consumate nelle nostre liturgie, ma bellissime: «Della gloria del Signore è piena la terra». Nelle parole un sussulto di speranza contro le paure, che ci fanno ciechi, incapaci di cogliere la gloria di Dio di cui è piena la terra.
Nel titolo dato al mio intervento — «Le paure che ci abitano» — si parla di paure al plurale. Penso sia stato scelto riandando al titolo di un mio piccolo libro. Ma io non saprei ripercorrere esaustivamente con voi le paure che ci abitano. Neppure il libro ha la pretesa di farlo. Una cosa sta però sotto gli occhi di tutti: che la paura è diventata un clima. “Solo di oggi?”, mi chiedo. Non penso. Nella memoria di tutti noi ci sono parole e parole del vangelo che ci ricordano l’insistenza con cui Gesù invitava a non temere, a non avere paura. Certo la leggeva negli occhi di chi lo ascoltava o di chi viveva ore di bufera in una barca sul lago. Ma oggi la paura, quella percepita, sta di giorno in giorno sempre più dilagando. E contagiando. E allora come guardarla in faccia e come resisterle?
Io non ho competenze, ma vorrei lasciarvi forse solo un pensiero, certo parziale: a volte mi sembra di intuire che al fondo di tutte le nostre paure, che stanno generando un clima diffuso, ci sia la paura — così la chiamo — del “viaggio”. Paura della vita così come ci è data e non come ce la prefiguriamo. Sembra di dire una cosa scontata: ma la vita non è forse un viaggio? Dal primo all’ultimo istante? E se un cucciolo d’uomo non fuoriesce da un grembo di donna intristisce, abortisce, muore; e se io non fuoriesco da questa vita al termine dei miei giorni, termine ormai per me ravvicinato, rimango nella morte.
Potrei forse dire che la scelta allora è tra “rimanere” o “mettersi in viaggio”, tra stare fermi per paura o amare vincendo le paure. Una condizione per amare è uscire. Mettersi in viaggio. Se non ci mettiamo in viaggio — alludo a un modo di pensare e di vivere — è illusione quella di dire che amiamo. Al cuore mi ritorna una parola della Prima lettera di Giovanni, così precisa, senza “se”
e senza “ma”, quasi implacabile: «Chi non ama rimane nella morte» (1Giovanni 3, 14). Rimane,
non ha viaggio. Una vita senza viaggio è una vita senza amore. E una vita senza amore è un vita derubata del suo più grande e affascinante viaggio. Io se non amo sono come un cucciolo d’uomo abortito.
E, allora, voi mi perdonerete se vi farò fare un po’ di fatica dietro pensieri come i miei che hanno purtroppo un andamento poco lineare e rapsodico. Che saranno uno sconfinare dietro le parole”paura”, “viaggio”, “amare”.
“Ma come può esserci una paura” — mi si potrebbe chiedere — “del viaggio? Ma come? Non dovremmo essere felici di viaggiare?”. Sì, se tutto è nei programmi; sì, se tutto si incastra alla perfezione; sì, se tutto è preordinato; sì, se ci sono le condizioni; sì, se ti sei assicurato. Se no, non ci si muove. Preferiamo stare con i piedi per terra. Perdonate questo sconfinamento molto personale. Mi capita la mattina di uscire, alle sette, di casa, quasi tutti i giorni, con un amico e di camminare per tre quarti d’ora nelle strade del quartiere. Questa estate andavo da solo con i miei pensieri e mi ritornò alla mente una parola bambina: «Guarda dove metti i piedi». Forse anche qualcuno di voi se l’è sentita dire e più di una volta. Mi venne da pensare che, se da un lato quell’invito «guarda dove metti i piedi» poteva avermi salvato da inciampi — paura di inciampare —, dall’altro mi aveva tolto l’avventura di guardare ad altezza di persona o ad altezza di case, o ad altezza di cielo. Mi dicevo:
Me ne vado
per peso d’anni
gli occhi incollati
a strisce nere d’asfalto Vedo dove metto i piedi. Ma più su che accade?
Oltre che accade? Dovremmo essere in tanti — oserei dire: tutti! riconoscenti alla Caritas che ci risveglia dalle strisce nere d’asfalto. Dove la visione è ferma. E ci mette per grazia sete negli occhi. Oggi, viviamo la stagione della cautela. Ci neghiamo ai sogni. Ci risuona nel cuore dilagando un altro detto antico: «Sta con i piedi per terra!». Ci neghiamo il viaggio. Ritorno sulla parola. Spesso la parola “viaggio” entra nei nostri discorsi quando si parla di migranti. Dovrebbe entrare sempre più nei nostri pensieri e nei nostri discorsi, e dovremmo parlarne con intelligenza. Parlare del loro viaggio.
Ma forse — non so se vedo bene — si dice meno che al viaggio dei migranti deve accompagnarsi il nostro viaggio. Ecco vorrei sostare su questo viaggio che tocca a noi. Non c’è accoglienza, non c’è inclusione, non c’è condivisione delle diversità, se il nostro verbo è “rimanere”, rimanere a riva, sulla riva delle nostre pseudo-certezze, dei nostri inveterati pregiudizi, delle nostre visioni senza respiro, incapaci di sconfinamenti.
In questi giorni è passato nel nostro paese, ed è stato intervistato a Tv2000 padre Alejandro Solalinda. La sua casa-rifugio Hermanos en el Camino di Ciudad Ixtepec, in Messico, dal febbraio 2007 a oggi ha accolto e protetto decine di migliaia di migranti, ma le ha attirato anche la rabbia di tante persone, prime fra tutte quelle collegate ai cartelli della droga. Ebbene in un passaggio di una sua intervista invitava al viaggio, a uscire. Diceva:
Dovete, dobbiamo essere in grado di cambiare la nostra visione, allungandola. Quella che abbiamo ora è parziale, molto corta: bisogna ampliare l’orizzonte, capire che la storia dell’umanità è lunga, ognuno di noi è un puntino che però non deve rimanere inerte. Anzi, si deve azzardare a mettere un nuovo paio di occhiali: una lente è quella che mi fa capire come l’avanzamento tecnologico non basti per evolversi, dato che stiamo compiendo azioni barbare peggio ancora di quanto faceva l’uomo delle caverne. Dobbiamo chiederci dove vogliamo arrivare, fermare queste barbarie. Con l’altra lente, dobbiamo essere in grado di vedere con gli occhi di Gesù. Non sto parlando da credente, perché so che potrei risultare un predicatore come tanti, sto parlando da uomo. Gesù da giovane fece cose incredibili nel suo tempo, in quel primo secolo dopo Cristo in Palestina in cui c’era una religione fondamentalista, escludente. Lui è stato semplicemente se stesso, è andato contro le convenzioni, rompendo schemi. Questa è la prospettiva per andare avanti, credenti come atei.
Non so se vedo bene, ma a volte mi sembra di cogliere quasi una schizofrenia. Da un lato, l’immaginazione che arriva a creare tecniche strepitose che hanno quasi dell’inverosimile, dall’altro, un rattrappimento, una mancanza di immaginazione e di invenzione, nell’umano. Si inventa — sembra di dire un ossimoro — si inventa il conosciuto. Pensate come si risolvono o si sbandierano le soluzioni: «Chiudiamo i confini, erigiamo dei muri, mandiamoli a casa». Ma
pensate che genio ci vuole, che folgorazione di fantasia, che magia di intelligenza a dire queste cose! A chiedere di rimanere fermi!
Lo spettacolo è indecoroso. In uno dei miei sconfinamenti mattutini, mi venne da pensare come sia indecoroso questo blaterare dicendo sempre le stesse cose, sempre distruggendo e mai, una volta che è una volta, proponendo: non c’è viaggio, siamo fermi alle parole, impalati a riva.
Ora che ciarlatani beoti urlano giorno e notte
le loro verità
senza decoro,
a premio di sondaggi, mi arrampico
curioso
su fili di silenzio.
Fermi alle parole, impalati a riva o come spesso ci avverte papa Francesco, sul balcone. Rimaniamo al balcone. Lo disse un giorno — era agli inizi del suo ministero — agli universitari: «Non restate al balcone, scendete, andate nelle periferie esistenziali». Ora ha coniato persino un verbo: «Non balconare la vita aspettando il fallimento». Così ha commentato un quotidiano laico:
Balconare la vita: stare eternamente sul balcone, guardando dall’alto, spendere le ore in un chiacchiericcio il più delle volte malevolo, che non implica nessuna responsabilità. Si riferiva a certi effetti negativi del correntismo nella curia romana? È più probabile che si riferisse agli umani in generale, ai “terroristi delle chiacchiere” che ci capita — più o meno consapevolmente di essere.
Certo viaggiare, scendere, accompagnare non è senza fatica o senza pericolo, e voi me lo insegnate. Ma è la condizione dell’amore. Stare distanti per non correre pericolo, per non essere feriti, che amore sarebbe? Dio non si è tenuto distante, è disceso dal balcone, a rischio di ferita. Dio non è nel trattenersi, nella rigidità, Dio non è nel chiudersi. È nello sbilanciarsi, che è lo sbilanciarsi dell’amore. È nel viaggio, ha deciso per il viaggio.
In viaggio per amare.
Il pericolo, quello di essere fermi potrebbe insinuarsi anche nei nostri ambiti, quelli della carità, ambiti personali o collettivi. Caritas discreta, diceva un vecchio adagio latino: una carità che ci mette in viaggio per un discernimento, “discreta”. O anche si diceva: Ubi caritas ibi oculus. Una carità che ha occhi per vedere, per capire, per immaginare. Gli occhi ti mettono in viaggio. A volte mi sembra di assomigliare all’uomo della parabola, quello che ha ricevuto un talento e lo ferma in un fazzoletto. Non lo mette in viaggio. E dice — significativo! —: «Ho avuto paura». La paura ci paralizza, la fiducia ci apre, ci apre all’invenzione. Vi devo confessare, che, quando sono un po’ o tanto rattristato per questo montare di egoismo, per il trionfo dell’io, in giorni in cui anche il plurale “noi” si sposa a rivendicazioni, isolazionismi o chiusure, mi fermo a pensare a un sommerso. Che siete voi. E mi dico che il regno di Dio non è morto: è come seme nella terra o come un grumo di lievito nella pasta. E dopo avere ricordato a me stesso che Dio è fedele alle sue promesse, combatto così le mie paure: pensando a voi, ai germogli che non fanno rumore nel loro tenerissimo crescere. Crescere per fantasia, per immaginazione nella carità.
So di essere stato disordinato nei miei pensieri. Lo sono per natura, ma ora fa aggiunta la vecchiaia. Vorrei lasciarvi, finendo, una icona e una poesia.
L’icona è del Vangelo. Le ultime parole di Gesù nel Vangelo di Marco, prima che inizino i giorni della passione e risurrezione, sono queste (Marco 12, 41-44):
Seduto di fronte al tesoro, il Signore Gesù osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo. Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».
Pensate, alla fine della sua missione pubblica, Gesù ci invita a guardare una che appartiene alla categoria dei poveri. Toglie attenzione a coloro che sdottorano nel tempio a esibizione di se stessi: «Guardatevi da»…, «togliete gli occhi da loro». E mette in cattedra — noi diremmo — una poveretta; pensate a uno, a una dei nostri ultimi.. Noi non sempre lo facciamo. Succede che aiutiamo, ma non sempre succede che mettiamo in cattedra una povera vedova. Gesù sembra dire: «Posate gli occhi, non finite di guardare quella vedova povera, quasi invisibile, lei che nel silenzio più assoluto fa scivolare, senza che se ne oda rumore, nel tesoro del tempio due monetine che fanno un soldo. Che era tutto quello che aveva per vivere. Guardate lei, è la sintesi del vangelo, guardate i poveri, guardate gli ultimi, hanno molto da insegnare. In fatto di vangelo e non solo».
Nessuno di noi sa come si chiamasse quella donna, povera. Povera anche di nome. Una innominata, della folla dei piccoli. Ma, agli occhi di Gesù, grande, la più grande. E dov’è la sua grandezza? Tutti le avremmo suggerito: «Sta sul sicuro, tieni quello che hai, che è poi un minimo, nemmeno un minimo, sta sul sicuro, sono due monetine, tienitele strette. Se te ne privi, che cosa succederà?». Ebbene lei le ha messe in viaggio. Confidando in Dio. È vangelo, notizia buona. Voi mi capite, oggi sono chiamato non solo a dare, ma a guardare, ad ascoltare.
Ed ecco la poesia: è di un ragazzo egiziano, dieci anni — mettiamolo in cattedra —. La poesia me l’ha regalata un’amica, una poetessa, che alcuni di voi forse conoscono, Chandra Livia Candiani. Lei fa scuola di poesia con i bambini delle periferie, spesso le classi sono in prevalenza di figli di immigrati. Fares — così si chiama il ragazzino — scrive di «un viaggio che aggiorna un popolo antico». Penso che anche il mio paese, che anche questa città che amo, ha bisogno di aggiornamento. Da Un viaggio ascoltiamo. Cancellate le mie parole, rimangano queste:
Un tempo lontano
un’avventura nel mare
una speranza profonda
un’onda mortale
un buio infinito
un popolo lontano
e un popolo vicino
una speranza di vivere
nell’interno del tempo
una avventura indimenticabile
una fatica assoluta
un mare di guai
una scoperta fantastica
dei fossili trovati
un mistero misterioso
una tragedia che ferisce
il cuore dell’altro
una paura da superare
un popolo misterioso
difendendo l’umanità
un popolo sincero
che viva in pace
un popolo accontentato
da ciò che ha
che non sprechi
i suoi doni e minerale
un’avventura che scoprirà
un popolo nuovo
un’onda pulita
un popolo buono
un buio fitto
che tranquillizza il popolo
un popolo che non tradisce
il suo fratello
un viaggio che
aggiorna un popolo antico
una foresta fitta senza vita
una speranza commuovente
un mare profondo
con onde pericolose
passarlo sarà
un’avventura straordinaria partendo
tornando
un’avventura lo sarà certo
un tempo infinito
sarà migliore
e di sicuro verrà da noi
invadendo la nostra cara terra
le porterà armonia
gioia felicità
cacciando per sempre i micidiali
il mondo fiorirà per tutti
e sorriderà all’umanità
un popolo che sa bene
accontentarsi del ciò che si ha
un popolo che protegga il proprio popolo
un fratello che non ferisce
il proprio fratello.