Dove sorge l’arcobaleno. Le persone LGBT in India
Articolo di Sarah Collin tratto dal mensile Têtu (Francia), del luglio-agosto 2014, liberamente tradotto da Marco Galvagno
A Bombay, capitale economica dell’India, quasi ogni weekend viene organizzata una serata gay. Ma l’apparente libertà dei costumi nasconde un’altra realtà.
Nel dicembre 2013, contro ogni attesa e contraddicendo una decisione dell’Alta corte di giustizia, la Corte suprema si è rifiutata di depenalizzare l’omosessualità. Per migliaia di giovani indiani che avevano appena fatto coming out la sentenza è equivalsa a uno schiaffo.
Incontro con una generazione fuori legge.
Nel caldo della notte tropicale dei bei ragazzi arrivano in un ristorante italiano adibito ad uso privato da parte degli organizzatori della serata “Gay Salvation” a Bandra, un quartiere alla moda di Bombay. Sulla terrazza il clima è disteso, si commenta il nuovo look dell’uno o dell’altro, si trovano somiglianze con gli attori della serie The game of thrones, si parla dei nuovi ristoranti che hanno aperto nel quartiere, con una preferenza per quelli situati lontano dalle bidonvilles, altrimenti sarebbe imbarazzante.
Sessualità tabù
“Se le disuguaglianze sociali sono ancora visibili, Bombay è la città più sicura per i gay” spiega Nakul, trentenne dal sorriso sfavillante. È la città più sicura, ma anche la più aperta per molti giovani glbt che si trasferiscono in questa megalopoli di venti milioni di abitanti per cercare lavoro ma anche per vivere una vita più libera che nel resto dell’India. “Non potrei vivere in un altro posto” afferma Angelo, 23 anni “e persino qui il mio compagno si sente spesso a disagio quando voglio fargli coccole in pubblico”.
Nonostante l’India abbia fatto passi da gigante nel senso della modernità, nella società indiana anche la sessualità eterosessuale rimane un tabù. Gli omosessuali sono passibili d’imprigionamento. Mettendo fine alle speranze della comunità gay e di tutti i progressisti, la Corte suprema nel dicembre 2013 ha rifiutato di sopprimere l’articolo 337 del codice penale indiano che criminalizza le relazioni sessuali contro natura.
Un verdetto sorprendente, poiché nel 2009 un altro pronunciamento della Corte penale di giustizia di Delhi aveva depenalizzato l’omosessualità. I magistrati avevano considerato l’articolo 337 come contrario ai diritti fondamentali stabiliti dalla Costituzione. “Questa decisione aveva indotto un’esplosione di coming out” spiega in francese perfetto Sachin Jan, attivista dell’associazione Gay Bombay.
I ragazzi, in particolare, sono venuti fuori con l’idea che le leggi a loro favore sarebbero presto arrivate. La decisione della Corte suprema ha fatto l’effetto di una doccia fredda, anche perché rimanda la palla al legislatore e inoltre l’elezione presidenziale, in cui ha vinto Narendra Modi, nazionalista hindu, non fa presagire nulla di buono.
Se Modi (ndr nuovo primo ministro dell’India) ha taciuto sull’argomento durante la campagna elettorale, il presidente del suo partito aveva definito l’omosessualità un atto contro natura e il portavoce del partito aveva dichiarato che era una cosa importata dalla cultura occidentale. Per contraddirlo Sachin Jan sta lavorando all’edizione hindi della rivista online Gaylaxy.
Per lui scegliere la lingua nazionale non è un fattore secondario, il che mostra che l’omosessualità è un fenomeno autenticamente indigeno, che non è arrivato in India con la mondializzazione.
Matrimoni forzati
“Il divieto dell’omosessualità, in compenso, è un regalo ai maestri del coro” dichiara adirato. Nei giornali sono stati resi noti vari casi di ricatto subiti dalla gente nel timore che altri facciano outing. Lo schema tipico è questo: due uomini si conoscono su un sito di incontri gay e si danno appuntamento in un hotel.
Alcuni complici di uno dei due suonano alla porta fingendo di essere suoi parenti ed estorcono all’altro notevoli somme di denaro minacciando di andare a dire alla sua famiglia che è gay. In quel caso è difficile andare dalla polizia: i gay sono facili prede.
“Al di là dei ricatti e delle molestie, altre tragedie avvengono nelle famiglie, a porte chiuse” prosegue Sachin. “I matrimoni forzati continueranno, i ragazzi non possono vietarli, perché come possono spiegare alle loro famiglie che vogliono fare cose illegali?”
Ishan, 26 anni, barista, conosce bene il problema: nella sua famiglia a Calcutta nessuno sa che è gay. A Bombay, dove vive, ha fatto coming out con molte persone. Come molti gay indiani ha due profili Facebook, uno gay a torso nudo e con amici gay e uno etero per la famiglia e i colleghi di lavoro. Ishan ha paura dei ricatti. “Sono solo qui, non ho alcun sostegno, se mi succedesse qualcosa dovrei per forza subire”.
A Calcutta i suoi genitori hanno cominciato a cercargli una moglie per fare un matrimonio combinato, il ragazzo rimanda la scadenza, ma per quanto tempo? I giovani come Ishan sono numerosi tra i membri dell’associazione Gay Bombay, varie volte all’anno si ritrovano alla proiezione di un film organizzato nell’auditorium di una facoltà universitaria nel quartiere di Bantra.
Alla pausa chai (il tè indiano) le discussioni vertono sulle immagini appena viste. Molti partecipanti non hanno ancora fatto coming out. “Per noi è importante sapere com’è la vita dei gay negli altri paesi. Vedere coppie gay felici ci motiva e ci dà forza” spiega Ankrit, 21 anni.
Lesbiche invisibili.
Per le lesbiche la strada è ancora più dura. Le donne omosessuali sono praticamente invisibili nella società indiana. “L’India è un paese patriarcale. Le donne non dovrebbero uscire da sole e vengono considerate asessuate prima del matrimonio” spiega Sonal Giani, 26 anni, una delle poche ad accettare di testimoniare a viso scoperto.
Questa donna piena d’energia positiva ci commuove quando racconta tutte le prove e le sofferenze che ha patito. Cresciuta in una base militare, Sonal è stata dichiarata lesbica in un messaggio inviato contro la sua volontà a tutti i suoi compagni di facoltà. Ha subito altre discriminazioni nell’ambiente lavorativo degli hotel e dei ristoranti di Bombay.
Da allora in poi ha deciso di impegnarsi nella difesa dei diritti GLBT e ha aderito all’associazione Humsafar, della quale è diventata responsabile della comunicazione. Sonal vive con la sua compagna, ma rimane un’eccezione.
“Le lesbiche in India raramente possono resistere alla pressione matrimoniale. Questo arreca loro problemi di depressione, di dipendenza, di solitudine, di salute mentale in generale” deplora lei.
In India solo una persona è conosciuta pubblicamente come lesbica. Ma Faiza è una dj e suona in tutto il paese: Bombay, Delhi, Goa, Hyderabad, Shillong, Chennai. “Citate una città indiana e io avrò sicuramente mixato lì” afferma. Un ammiratore la sta abbordando per la strada, con il suo metro e ottantacinque, i suoi tatuaggi e la voce grave.
Ma Faiza non passa certo inosservata. “Porto colore quando mixo, porto una giacca e un cappello e non nascondo a nessuno che mi piacciono le donne, ma per me non è mai stato un problema.” Se la dj non fa concessioni, ci tiene però a far conoscere il mondo dei gay agli altri.
Tre anni fa aveva organizzato una queer night in una sala di concerti di Bombay. “La gente non aveva mai visto queste cose in India: c’era la musica, le drag queen, i preservativi gratuiti, sketch, un queer market e un sacco di etero tra il pubblico” ricorda Ma Faiza con fierezza. È in corso un dibattito sulla depenalizzazione dell’omosessualità, si organizzano Gay pride da una decina d’anni e avvenimenti sportivi promossi da personalità come Ma Faiza: l’India si sta svegliando sul tema dell’orientamento sessuale.
L’immenso paese non ha ancora allentato la morsa delle sue contraddizioni: si dibatte tra condanna giuridica e accettazione sociale dell’omosessualità, tra conservatorismo politico e apertura delle mentalità, tra pressioni famigliari e crescita dell’individualismo. Dei tira e molla che si cristallizzano sulla pelle della giovani gay e delle giovani lesbiche.
Ma niente è scolpito nella pietra; la Corte suprema, dopo essersi rifiutata di depenalizzare l’omosessualità, ha riconosciuto alla metà di aprile i transgender come terzo sesso. Si può ancora sperare, Sachin Jan ne è convinto. “Il divieto della Corte suprema è un coccodrillo in agonia che dà gli ultimi colpi di testa prima di morire. Ma un giorno o l’altro avremo i nostri diritti, il nostro motto è “Not going back”, non faremo marcia indietro.”
Riflessi positivi.
Nel suo ufficio moderno del campus del gigante industriale di Godrej, a due ore dal centro di Bombay, Parwesh Shahani è una delle figure emblematiche di questa generazione indiana “out and proud”.
Nel 2008 ha pubblicato con Gay Bombay un saggio che mescola etnografia e annedoti personali, una prima nel mondo letterario indiano. Nella sua impresa la recriminazione recente contro i gay non ha avuto conseguenze, ma il giudizio della Corte suprema ha reso esitanti alcuni compagni che erano sulla buona strada. “Ora hanno una scusa per evitare di mettere clausole antidiscriminatorie” afferma Parwesh.
Ma a volte anche le discriminazioni portano con sé riflessi positivi: così la linea antigay del nuovo partito al potere ha invogliato Harish Iryer a impegnarsi in politica. A trentacinque anni, il viso rugoso, ha appena aderito all’AJP, la nuova formazione politica che si batte contro la corruzione. Contrariamente al BJP (partito al potere), l’AJP in campagna elettorale ha preso poizione a favore dei diritti delle persone omosessuali e transgender.
“Ci vorranno presto dei deputati gay in Parlamento, è importante condurre un dialogo all’interno delle istituzioni” argomenta Harish, chino sul suo giornale. Pur non avendo presentato la propria candidatura alle elezioni legislative di maggio, il militante vuole battersi per i temi prioritari come la decriminalizzazione dei rapporti sessuali consenzienti e la criminalizzazione di relazioni sessuali consentite (in India la legge contro la violenza sessuale considera che le potenziali vittime possano essere solo donne), la revisione dei manuali scolastici, l’introduzione dell’educazione sessuale. Ma la strada è ancora lunga e difficile.