Le persone omosessuali. Eunuchi per quale regno?
Brano tratto dal libro di Carolina del Río Mena*, ¿Quién soy yo para juzgar? Testimonios de homosexuales católicos, Editorial Uqbar, Santiago (Cile), anno 2015, pp.297-302, liberamente tradotto da Dino
Il catechismo della Chiesa afferma che le persone omosessuali devono astenersi dagli atti omosessuali. Nel n°2359 si afferma che “le persone omosessuali sono chiamate alla castità. Attraverso le virtù della padronanza di sé, educatrici della libertà interiore, mediante il sostegno, talvolta, di un’amicizia disinteressata, con la preghiera e la grazia sacramentale, possono e devono, gradatamente e risolutamente, avvicinarsi alla perfezione cristiana“.
Tuttavia la castità è una chiamata per tutti i cattolici, comprese le coppie eterosessuali. Ma quando si parla di castità, di cosa parliamo esattamente?
La castità solitamente veniva intesa come la virtù “che tende a moderare l’uso della facoltà riproduttiva secondo la giusta ragione indicata dalla fede“. Questa definizione biologicista e riduzionista che è incentrata sulla genitalità e ignora il senso antropologico della sessualità umana, è stata fortemente criticata dai moralisti.
Secondo Marciano Vidal “la concezione della sessualità come genitalità conduce ad una morale biologicista, avulsa dalla completezza della persona umana. E questo origina una nozione di castità eccessivamente legata alla genitalità“. (cit. tratta da Vidal Marciano, Diccionario de etica teologica, Verbo Divino, 1991, pp.78-79)
Abbiamo anche guardato alla castità, aggiunge Vidal, accentuando gli aspetti negativi, la rinuncia, il peccato in un’ottica puritana che nuoce all’essere umano e alla sua corporeità. Secondo il moralista spagnolo è necessario andare verso una concezione positiva e integrale della castità, per comprenderla alla luce di una corretta antropologia della sessualità e dell’etica.
“Con questo doppio inquadramento, sostiene Vidal, la castità appare come il dinamismo morale mediante il quale il soggetto personalizza il significato positivo della sessualità” e si trasforma in una forza positiva che aiuta nell’edificazione della persona.
Secondo quanto precedentemente esposto, quello che si chiede alle persone omosessuali – la castità – in realtà non sembra essere la castità, ma il celibato o la verginità. Questa chiaramente non è una realtà per tutti, siano etero o omosessuali, perché deve nascere da una vocazione o da una “comprensione data carismaticamente dallo Spirito“.
Non è possibile fare un invito generale al celibato se riteniamo che esso sia una grazia concessa soltanto ad alcuni in funzione di una chiamata personale. Inoltre, “non deve trattarsi di una verginità qualunque, ma di una verginità ‘per il regno’, cioè che nasca da una profonda esperienza delle richieste del regno nella vita personale del credente che, da una parte e dall’altra, pone l’esperienza del regno propone per quanto concerne, sia l’annuncio che il servizio fraterno“.
La verginità consacrata, secondo quanto afferma il concilio Vaticano II, è un “dono divino che la Chiesa ha ricevuto dal Signore e che con la sua grazia si conserva in modo perpetuo” (LG 43). Questo dono della grazia fa si che l’uomo e la donna consacrata s’impegnino, con cuore indiviso, al servizio del regno di Dio. Papa Giovanni Paolo II affermava che la verginità “non è solo una libera rinuncia al matrimonio e alla vita famigliare, ma è una scelta carismatica di Cristo come sposo esclusivo“.
Paolo VI nella sua enciclica Sacerdotalis Caelibatus affermava che “il celibato è oggetto interiore e segno esteriore della totale e gioiosa donazione al ministero di Cristo“.
Il catechismo della Chiesa cattolica al N° 1579 afferma che nella Chiesa latina i sacerdoti e i ministri ordinati, ad eccezione dei diaconi permanenti, sono ordinariamente scelti tra uomini credenti che vivono come celibi e hanno la volontà di mantenere il celibato “per il Regno dei cieli” (Mt 19,12).
Il Codice di Diritto Canonico lo ratifica per tutti i sacerdoti che “sono obbligati ad osservare una continenza perfetta e perpetua per il Regno dei cieli e pertanto sono soggetti a mantenere il celibato” (Codice di Diritto Canonico c. 277).
Stando così le cose, quando si chiede castità alle persone omosessuali, ciò che in realtà si chiede è il celibato, poichè la castità si chiede a tutti, anche alle coppie eterosessuali unite in matrimonio sacramentale.
Il problema è che la richiesta di astenersi da relazioni sessuali, di fare una scelta di vita che implica di non esercitare la sessualità, come può essere sostenuta nel caso di persone omosessuali che non hanno vocazione alla vita consacrata?
La Chiesa ha sempre considerato il celibato come “una vocazione“, una chiamata personale che alcuni e alcune ricevono per dedicarsi al lavoro per il regno di Dio.
Ma quale regno sarebbero chiamati a servire gli omosessuali obbligati al celibato? Certamente non il regno di Dio che comporta l’accoglienza, fatta con libertà, di questa chiamata all’impegno totale.
Di quale libertà staremmo parlando se la nostra incomprensione di una realtà che ci risulta estranea – come è l’omosessualità- costringe al celibato chi non è chiamato a viverlo?
Dall’insegnamento contenuto nel catechismo sorge un complesso paradosso, si dice alla persona omosessuale che la si accoglie e la si rispetta, ma che la dimensione psicoaffettiva non dovrà mai svilupparla. Secondo Romero “è un rispetto che è asai incompleto, io ti rispetto come omosessuale ma tutto quello che esce da te, da questo mondo omosessuale, è perverso, è orientato verso qualcosa che non deve essere. E’ molto brutto per una coppia omosessuale cristiana sentirsi dire dalla Chiesa che: “il vostro modo di essere è intrinsecamente disordinato e cattivo”, quando guardiamo alla loro vita concreta, a dei partner concreti, a una relazione concreta, con la quale si sono realizzati ed hanno aumentato la loro capacità di amare, hanno avuto una maggiore consolazione spirituale e si sono sentiti più amati. E’ un problema serio“.
Quena Valdés ha la stessa opinione e grazie alla sua esperienza di accompagnatrice pastorale ogni giorno si trova in contatto con migliaia di situazioni complesse. Ne racconta una: un giorno, una coppia anziana, entrambi cattolici e molto praticanti, chiesero il suo aiuto quando si resero conto che il loro figlio di quarantacinque anni era gay. Si era sposato, separato ed era padre di due figli.
“Questo padre – spiega Quena – nel suo contesto socioculturale gli avevano insegnato che: ‘In principio Dio creò l’uomo e la donna, per la procreazione, ma nel suo caso… bene – mi diceva – lui è figlio di Dio, a sua immagine e somiglianza e questo significa che doveva vivere il celibato… per essere fedele a Dio’. Assurdo!
Il grande problema, mi dicevano i genitori che ‘è come non tenere conto di ciò che abbiamo sempre ascoltato nella Chiesa… Lei crede che nostro figlio dovrebbe cercare di vivere senza un compagno?’, – mi chiedevano – allora io risposi: “perché volete obbligarlo al celibato, vocazione che non ha, cosa c’è di male nel fatto che abbia un compagno, questo è un segno visibile dell’amore di Dio, proprio come l’amore tra di voi’.
E mi dissero: “quando ci ha rivelato che aveva un compagno, abbiamo provato una specie di nausea”. Ed è comprensibile, ma qui c’è un processo evolutivo che essi devono compiere. Altra cosa è imporre al figlio di vivere una vita per la quale non ha vocazione. E questo è molto comune”.
Molto profondamente in ciascuno si annidano i timori, i pregiudizi… “Credo che dobbiamo compiere una svolta revisionista riguardo a tutte le reazioni più spontanee che abbiamo nei confronti dell’omosessualità che oggi sarebbe politicamente scorretto esprimere apertamente, ma che sono presenti dentro di noi. Vedi una coppia omosessuale che si bacia e dentro di te, anche se non lo dici, avviene qualcosa“, sostiene Romero. Ma ognuno deve farsi carico di quello che avviene in lui.
Concorda con queste affermazioni José Aldunate, sacerdote gesuita, dottore in Morale, quasi centenario e quasi cieco, ma che vede il problema con acuta lucidità. In una riunione con i padri e le madri di persone omosessuali, nel novembre 2012, diceva loro con forza: “Ho la convinzione assoluta che tutto quello che concerne i diritti umani, che mi hanno sempre coinvolto molto, che la persona omosessuale, qualunque sia la teoria con cui si possa spiegare o dar ragione di questa situazione, ha un diritto naturale, datogli dalla natura stessa, a realizzarsi secondo la sua natura.
Ora, la piena realizzazione consiste nella capacità di uscire da se stesso, nel non cercare la soddisfazione e la realizzazione propria, attraverso il superamento di un amore personale e egoista“.
E’ vero che l’egoismo e l’amor proprio – continua Aldunate – si possono superare anche attraverso il celibato, situazione in cui l’altro è rappresentato dal prossimo in stato di bisogno. Ma per questo è necessario avere una vocazione. E non tutti gli omosessuali hanno la vocazione al celibato, la cosa più comune è la vocazione a condividere la vita con un compagno.
“Ho visto – aggiunge Aldunate – e ho ascoltato come due omosessuali si amano, si amano veramente, hanno cura l’uno dell’altro, hanno diritto all’affetto esclusivo dell’uno per l’altro, piangono quando muore il compagno o la compagna, cioè qui si realizza quell’amore nel quale ciascuno supera la sua solitudine, supera l’amore per se stesso con l’amore reciproco ed esce da se stesso”.
Tra coloro che quella sera lo hanno ascoltarono, più di uno rimase sorpreso dalle sue parole e anche sollevato. “Succede – dice Aldunate – che i professori di morale hanno sempre il problema di essere censurati e non hanno la libertà che ho io per dire le cose“.
Chiaramente, ormai essendo più vicino alla morte che alla vita, posso permettermi di parlare con parresìa, termine greco che significa libertà, coraggio e fermezza nel parlare, nel dire le cose.
La presenza nella nostra società, e quindi nella nostra Chiesa, di persone omosessuali che si sentono emarginate è evidentemente doloroso e dovrebbe stimolarci a seguire la linea della praxis di Gesù (Mt 25). Non è forse giusto e doveroso avvicinarsi alle persone omosessuali vedendo che in tutti si aprono nuove possibilità di esprimere e coltivare la vita buona? Quali elementi repressi o nascosti potrebbero emergere per aiutarci ad essere più umani e pienamente figli e figlie di Dio?
Parlare di più con loro e meno di loro, questo farebbe oggi Gesù di Nazaret.
* Carolina del Río Mena è una teologa cattolica e giornalista cilena, madre di quattro figli. Ha conseguito un master in Teologia Fondamentale presso la Pontificia Università Cattolica del Cile ed è docente presso il Centro de Espiritualidad Santa María, inoltre collabora col Centro Teológico Manuel Larraín del “Círculo de estudio de sexualidad y Evangelio”. E’ autrice del libro “¿Quién soy yo para juzgar? Testimonios de homosexuales católicos” pubblicato nel 2015, ed è co-autrice di “La irrupción de los laicos: Iglesia en crisis” edito nel 2011.