Le quattro sfide dei credenti LGBT+ e dei loro familiari
Omelia di don Antonio N. tenuta nella messa* di chiusura di “Camminando s’apre cammino” ritiro per cristiani LGBT+, i loro genitori e gli operatori pastorali che li accompagnano (Sestri Levante 24-26 giugno 2022)
Quest’omelia si colloca alla fine di un percorso. Perciò terrò conto di varie cose che ci siamo detti e che mi servono per accostare questa Parola qui ed oggi, far sì che parli a noi nella situazione che stiamo vivendo.
Il tema di queste letture, della domenica che stiamo vivendo, è quello della vocazione. Tutti noi che facciamo un percorso all’interno della comunità cristiana abbiamo sentito dire tante volte che vocazione non è solamente e necessariamente “chiamata a una consacrazione speciale”. La vocazione non ce l’hanno solo i sacerdoti o i religiosi e le religiose. Tutti i cristiani, tutti i battezzati fanno esperienza di “vocazione”.
E allora, che cos’è propriamente la vocazione? È la chiamata che il Signore rivolge a ciascuno di noi: chiamata innanzitutto alla vita, chiamata a realizzare un progetto di vita, che è unico, irripetibile. Solo tu puoi realizzare quel progetto, nessuno al posto tuo. Il Signore ti ha fatto così, con quelle caratteristiche, con quei carismi, con quei pregi, con quei difetti perché tu possa realizzare quel progetto.
Ciascuno di noi è come il pezzetto di un puzzle che si incastra esattamente in quel punto in cui può incastrarsi, non in un altro. Allora “vocazione” significa concretamente chiamata a conoscersi, ad accettarsi, a trovare il proprio posto nel mondo e nella Chiesa. Nell’itinerario di queste giornate abbiamo più volte fatto riferimento al nostro libro Genitori fortunati di recente pubblicazione.
Al suo interno, nel contributo in chiave antropologica di Damiano Migliorini, l’autore scrive così: «Quando si è capaci di apprezzare l’imprevedibile diversità dell’identità individuale, si riesce a scorgere in ciascuna persona la sua vocazione, che è appunto personale, unica. In un paradigma meditato, nel quadro di un’antropologia cristiana coerente ed aggiornata, ha poi senso chiedersi se ci sia una vocazione propria della persona omosessuale» (p. 90).
Credo che queste considerazioni siano davvero opportune per approcciare il brano di Vangelo che la liturgia oggi ci propone. Perché “vocazione” è innanzitutto questo: il nostro progetto di vita, il nostro essere unici e irripetibili, e quindi chiamati a fare qualcosa che è solo e propriamente nostro. Certamente “vocazione” è chiamata a seguire Gesù, Via, Verità e Vita, ma proprio perché ci accorgiamo che Lui può darci una pienezza: essere cristiani non è una mortificazione del proprio sé, ma al contrario è la sua valorizzazione più piena. Chi segue Gesù uomo si fa lui pure più uomo, perché Lui svela pienamente l’uomo all’uomo, come ci ha insegnato il Concilio Vaticano II (cfr GS 22).
E certamente “vocazione” è anche la scelta di uno stato di vita. In questa domanda che ognuno si fa lungo il corso della propria esistenza a proposito della sua vocazione, rientra certamente in maniera del tutto speciale qual è lo stato di vita a cui sono chiamato. Per qualcuno sarà il matrimonio, per qualcuno una forma di consacrazione speciale, per qualcun’altro una situazione di coppia fatta di persone dello stesso sesso…
“Vocazione” significa certamente, in questa prospettiva, la chiamata ad essere liberi, ad essere se stessi. La seconda lettura ci ha ricordato che «Cristo ci ha liberati per la libertà!» (Gal 5,1). “Vocazione” è anche chiamata all’amore, ovvero ad amare ed essere amati, perché è questo che ti realizza pienamente e profondamente.
“Vocazione” è chiamata a farsi discepoli di Gesù. E farsi discepoli significa semplicemente che, siccome siamo stati raggiunti dall’amore, siccome abbiamo fatto l’incontro con la persona di Gesù, abbiamo deciso nel nostro cuore di seguirlo, perché questo ci permette di vivere la nostra vita in pienezza.
Allora Gesù, quando rivolge queste parole che abbiamo ascoltato nel Vangelo, parla a gente che ha scelto di farsi suoi discepoli, gente che lui ha chiamato e a cui ha proposto di seguirlo. Questa è una cosa curiosa, perché al tempo di Gesù erano i discepoli che si sceglievano il maestro. Invece Gesù, che è un maestro sui generis, è Lui che chiama le persone a seguirlo. Ma per queste persone “seguire Gesù” rappresenta il sogno di una vita, la condizione per realizzarsi davvero, ciò che permette loro di essere in pienezza se stessi. Posto questo, capiamo il ragionamento che fa Gesù. Lui in questo Vangelo ci fa una domanda: Tu vuoi essere mio discepolo (perché discepolo significa essere pienamente te stesso, realizzarti davvero, il sogno di una vita, etc.) e questo va bene, ma… fino a che punto sei disposto a lottare? Fin dove sei pronto ad arrivare? Quali difficoltà sei capace di affrontare?
E Gesù ci presenta quattro difficoltà in questo Vangelo, che sono quelle del discepolo e, se vogliamo, del cristiano LGBT+. Quattro possibili situazioni, quattro sfide:
1° difficoltà, 1° possibilità: quella del rifiuto. Gesù manda i suoi a preparargli la strada in un villaggio di Samaritani, ma questi non lo accolgono. E qual è la soluzione? Non ci accolgono in un villaggio? Ok, si va in un altro! Nella sua testimonianza il giovane Mattia ci raccontava che nella comunità di origine gli hanno fatto delle resistenze, ma poi il Signore gli ha messo sulla strada un’altra comunità che si è dimostrata invece più aperta, più inclusiva. Trovare il nostro posto nel mondo, trovare chi ci accoglie, chi ci valorizza… L’intelligenza è propriamente questo. È capacità di reazione, di adattamento, e quindi anche di ricerca, di ricerca di qualcos’altro (se la situazione in cui ci troviamo non ci è di aiuto).
2° possibilità, 2° sfida: la possibilità della precarietà. Gesù dice a chi vuol seguirlo: Non ti posso garantire sicurezza, «Le volpi hanno le loro tane […], ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Lc 9,58). Guarda che andrai incontro all’incomprensione, all’insuccesso, alla persecuzione: non è così facile, non è così comoda la strada del discepolo. Però se tu sei veramente convinto che quella è la tua pienezza, la tua realizzazione, che quello è il sogno della tua vita, allora sarai disposto a combattere, a fare coming out, anche accettando la possibilità di non andare incontro a certezze, tranquillità, soluzioni comode. La precarietà è questa situazione per cui la strada che Gesù ci propone non è quella del successo facile, del risultato scontato.
3° difficoltà, 3° sfida: la questione del rapporto con la famiglia. A volte i legami familiari possono essere una difficoltà grossa, e questo succede quando da questi legami ci si lascia bloccare, ci si lascia condizionare. Gesù sta dicendo questo: Se essere te stesso significa un taglio con la famiglia di origine, ebbene abbi il coraggio di farlo questo taglio, perché essere te stesso, realizzare la tua vita in pienezza è molto più importante dei legami familiari. E notate che Gesù usa un paradosso: qui si parla di seppellire il padre, quindi un gesto doveroso. Il linguaggio è piuttosto esagerato: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti» (Lc 9,60). È più importante essere te stesso, realizzare il tuo progetto di vita, l’unicità a cui sei stato chiamato: e se la famiglia ti è di ostacolo, allora «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti», cioè tu fa’ la tua strada. Papa Francesco nella Patris corde (8 dicembre 2020), parlando di san Giuseppe, ha usato parole molto belle per descrivere la sua castità, il suo amore casto, che è questa libertà dal possesso con cui Giuseppe si è posto come padre (cfr n. 7). Ha lasciato che Gesù facesse il suo percorso, che scoprisse la sua vocazione di Figlio di Dio. Non lo ha legato il suo amore, non è stato un amore possessivo, bloccante: è stato un amore liberante. E ciò di cui le famiglie devono liberarsi sono le aspettative. La questione figlio ideale/figlio reale: è lì che si gioca tutto. Se questo passaggio non riesce bene, il legame con la famiglia rischia di essere bloccante, invalidante.
4° difficoltà, 4° sfida: il rapporto con il proprio ambiente di origine, e quindi il quartiere, il contesto in cui mi sono formato, le esperienze fatte, etc. È il bagaglio umano e culturale che mi porto alle spalle. Gesù dice: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio» (Lc 9,62). Cioè, è vero che noi siamo figli dell’ambiente in cui siamo cresciuti, è vero che proprio quell’ambiente ci ha dato la possibilità di costruire la nostra identità, ma è altrettanto vero che siamo chiamati a trascendere quell’ambiente.
Siamo chiamati a non lasciarci risucchiare da quell’ambiente, siamo chiamati in qualche modo a contribuire alla trasformazione di quell’ambiente. E allora quand’è che diventa un problema, un pericolo il legame con l’ambiente di origine? Quando mi condiziona, quando mi blocca, quando il modo di pensare delle persone che mi stanno attorno mi impedisce di essere me stesso, quando mi chiudo perché sono condizionato da quello che pensano gli altri. E allora, anziché realizzare la mia vocazione, essere pienamente me stesso, quello per cui sono stato chiamato e pensato, mi lascio bloccare da quello che pensano gli altri, dall’ambiente. Gesù dice «Nessuno che si volge indietro è adatto per il regno di Dio», cioè nessuno che si lascia bloccare dal passato può realizzare la sua vocazione. Il passato è importante perché noi siamo la nostra memoria (cfr Genitori fortunati, 106), ma sono chiamato a trascenderlo questo passato e ad aprirmi a cose nuove.
Queste quattro sfide che il Signore pone al discepolo e a ciascuno di noi possono stimolare la nostra riflessione:
- la sfida del rifiuto,
- la sfida della precarietà,
- la sfida dei legami familiari,
- la sfida dell’ambiente.
Ciascuno di noi che vive la propria condizione di vita e in quella condizione riceve una chiamata a decidersi per il regno di Dio, ovvero per la pienezza della propria esistenza, possa sperimentare che la fede non è un ostacolo, bensì un aiuto, ad essere fino in fondo se stessi, alla valorizzazione più piena del proprio sé.
* XIII Domenica del Tempo ordinario, anno C, Letture: 1Re 19,16b.19-21; Sal 15/16; Gal 5,1.13-18; Lc 9,51-62
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