Le relazioni omosessuali e le Scritture
Testo della teologa suor Margaret Farley* tratto dal libro Just Love: A Framework for Christian Sexual Ethics, Continuum International Publishing Group (USA), agosto 2005, pagg. 259-262, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
In linea generale, i pochissimi passi biblici che parlano esplicitamente di omosessualità devono essere letti nel contesto generale della testimonianza biblica [1]. Come abbiamo visto, quasi tutti i passi delle Scritture ebraiche che trattano della condotta e della moralità sessuale sono influenzati da due elementi: l’obbligo di sposarsi e procreare e il modello patriarcale su cui si basavano tutte le idee e le istituzioni del matrimonio e della società. In un ambito siffatto, è comprensibile che ci sia poco spazio per le relazioni omosessuali.
Un terzo elemento che ha influenzato le regole sessuali della Bibbia ebraica è la preoccupazione di distinguere le pratiche israelitiche da ciò che era considerata l’idolatria delle nazioni confinanti. Il monito del Levitico contro i maschi che giacciono “con un uomo come con una donna” rinvia a questa preoccupazione (Levitico 18:22; 20:13). Solo più tardi si tenderà a innalzare specifiche proibizioni al rango di paradigmi del male morale, oscurando così gli intenti originari delle leggi.
Il racconto di Sodoma e Gomorra (Genesi 19:1–29), oggi popolarmente descritto come uno stupro omosessuale in mezzo ai molti peccati delle due città (Genesi 1–11), a un’analisi più approfondita non ha affatto questo significato. Nelle più antiche interpretazioni (contenute in altri passi della Bibbia ebraica e in alcuni testi deuterocanonici) l’estrema depravazione morale dei cittadini di Sodoma e di altre città della pianura veniva identificata non con l’omosessualità, bensì con la violazione dell’obbligo morale dell’ospitalità e con l’ingiustizia, l’arroganza, l’odio per lo straniero (Ezechiele 16:49; Siracide 16:8; Saggezza di Salomone 10:6–8; 19:13–15).
Nemmeno nei passi del Testamento cristiano dove viene menzionata Sodoma si fa riferimento all’omosessualità (Luca 10:12; Matteo 10:15). In seguito i cristiani furono probabilmente influenzati dall’interpretazione di alcuni scrittori ebrei del primo secolo, in particolare lo storiografo Giuseppe Flavio e il filosofo ellenistico Filone di Alessandria, che identificavano il peccato di Sodoma con l’omosessualità.
Il nuovo Testamento cristiano, così come la Bibbia ebraica, non ci aiutano molto a stabilire se le relazioni omosessuali siano permesse oppure no; abbiamo già visto che essi non ci offrono un codice sistematico di etica sessuale. I pochi testi che sembrano fare riferimento all’omosessualità sono difficili da interpretare, o per l’ambiguità causata dall’utilizzo di figure retoriche o termini specifici, o per il divario tra il significato delle relazioni omosessuali nel contesto in cui viveva Paolo (Romani 1:26–27; 1 Corinzi 6:9; 1 Timoteo 1:10) e il significato che esse hanno oggi.
Le interpretazioni contrastanti di Romani 1:26–27 costituiscono un esempio importante e interessante. Il dibattito contemporaneo su questo passo va avanti da anni e può essere seguito leggendo le opere di John Boswell, Richard Hays e Dale Martin, tra gli altri. Boswell sostiene che l’intenzione di Paolo non era stigmatizzare un particolare comportamento sessuale, ma “condannare i Gentili per la loro generale infedeltà”, aggiungendo che Paolo faceva riferimento alle relazioni omosessuali per dire che alcune persone eterosessuali, infuocate di passione, andavano contro ciò che era naturale per loro.
Boswell basa la sua argomentazione sul fatto che l’”orientamento” omosessuale non era un concetto riconosciuto a quei tempi.
Hays rifiuta questa interpretazione e sostiene invece che Paolo propugnava il concetto di complementarietà maschio/femmina in quanto parte della natura umana creata da Dio, e giudicava quindi contro natura qualsiasi comportamento omosessuale, che era il risultato della Caduta di Adamo ed Eva. Hays sostiene inoltre, contro Boswell, che è anacronistico interpretare i testi paolini alla luce delle più recenti scoperte sull’omosessualità [2].
Martin, dal canto suo, ribatte che leggere Romani 1 nel contesto della Genesi, ovvero dire che il desiderio eterosessuale è naturale perché stabilito dalla Creazione, e che il desiderio omosessuale è contro natura e disordinato perché originato dalla Caduta, significa non capire e perfino distorcere il punto di vista di Paolo, che non parla di Creazione e Caduta ma piuttosto dell’invenzione dell’idolatria. Secondo questa interpretazione, Paolo non si riferisce ai desideri “contro natura” ma allo scatenamento di desideri eccessivi e fuori controllo: “Il fattore che definiva il desiderio era l’intensità della passione, più che il suo oggetto”.
Nel contesto storico di Paolo l’intensità della passione non rendeva il desiderio passionale contro natura; invece, le azioni che violavano le gerarchie di genere vigenti potevano attirare su di sé tale giudizio. Nel mondo greco-romano un uomo che assumesse il ruolo (inferiore) della donna, che si abbassasse a divenire “effeminato” e assumesse il ruolo passivo in un rapporto sessuale era considerato “contro natura”; in questo caso, tuttavia, era in gioco la superiorità del maschio, non la direzione del desiderio erotico.
Martin propone questo elemento per una migliore interpretazione di Romani 1 e questa preoccupazione è condivisa da altre studiose, che si occupano della costruzione sociale dell’eterosessualità in quanto norma delle relazioni sessuali. Mary Rose D’Angelo, per esempio, afferma che “i testi biblici letti come condanna dell’omosessualità sono nati, in parte, come guardiani della gerarchia sessuale che […] veniva violata quando un maschio era ‘ridotto’ alla condizione di donna”. Judith Plaskow osserva che “si possono leggere le proibizioni bibliche del comportamento omosessuale non come ingiunzioni isolate, ma come parte del processo di costruzione della norma del matrimonio eterosessuale”.
Diana Swancutt, invece, propone una lettura di Paolo che sovverte le gerarchie di genere trasformandole all’interno del Corpo di Cristo. Se lavorare su un unico testo, come Romani 1:26–27, riesce a produrre non solo interpretazioni molto varie ma anche importanti sprazzi di luce sulla storia delle relazioni omosessuali, immaginiamo cosa può produrre il lavoro su molti testi. Non troveremo una risposta definitiva sulla liceità di queste relazioni, ma proprio questo è importante: se non altro, dovrebbe dissuaderci dall’ingaggiare battaglie a colpi di versetti.
Alla luce dell’intera testimonianza biblica, la mia modesta conclusione è che non esistono basi solide per una proibizione assoluta o, al contrario, per una benedizione senza se e senza ma alle relazioni e agli atti omosessuali, né nella Bibbia ebraica, né nelle Scritture cristiane. Il discernimento del significato e del peso delle Scritture stesse in relazione a questo particolare tema etico, come anche di altri, fa parte della storia sempre in divenire dello sguardo cristiano sull’umana sessualità. Quali che siano i risultati dell’esegesi e dell’interpretazione correnti, la comunità cristiana deve comunque discernere, alla luce delle altre sue fonti, quanto possano essere rilevanti e utili questi passi isolati per la vita della comunità stessa.
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[1] È aperta la discussione per stabilire se in questa manciata di passi ci si riferisca a qualcosa di simile a ciò che intendiamo oggi con “omosessualità”. Questo termine, in quanto tale, non compare in nessuna delle lingue in cui è composta la Bibbia e il concetto [che compare in questi passi] sembra essere diverso, o perlomeno più ristretto, da quello corrente oggigiorno.
[2] L’accusa di anacronismo è curiosa, perché Boswell afferma precisamente che non si può attribuire a Paolo il moderno concetto di orientamento sessuale; perciò, ciò che conta è il fatto che lì il concetto non si trova. D’altro canto, Bernadette Brooten afferma, assieme a Hays, che Paolo poteva avere un’idea di espressione sessuale “naturale” nel senso di distinzioni e orientamenti di genere, ma essa si sarebbe certamente basata sul paradigma culturale dell’inferiorità della donna, qualcosa che Hays, invece, non tiene in alcun conto.
* Suor Margaret A. Farley, nata il 15 aprile 1935, fa parte della congregazione americana delle Sisters of Mercy (Suore della Misericordia) ed è professoressa emerita di etica cristiana presso la Yale University Divinity School dove ha insegnato etica cristiana, dal 1971 al 2007, ed è stata anche presidente della Catholic Theological Society of America (Associazione Cattolica dei Teologi d’America). Il suo libro Just Love (2005), ha avuto numerose critiche e censure da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede per le opinioni morali espresse, considerate divergenti dal magistero cattolico, ma ha ricevuto invece ampio sostegno e approvazione dalla Leadership Conference of Women Religious (Conferenza delle Religiose degli Stati Uniti) e della Catholic Theological Society of America (Associazione Cattolica dei Teologi d’America).