Le sfide del sinodo: includere chi è stato messo ai magini
Riflessioni di monsignor Robert W. McElroy* pubblicate sul sito del settimanale gesuita America (Stati Uniti) il 24 gennaio 2023, liberamente tradotte da Giacomo Tessaro, parte terza e ultima
Il paradosso cristologico. I rapporti sinodali provenienti dagli Stati Uniti indicano un ulteriore e distinto motivo di esclusione dalla vita della Chiesa: “Coloro che sono emarginati a causa di determinate circostanze della loro vita, vissute come impedimenti alla piena partecipazione alla vita della Chiesa”, come le persone divorziate e risposate senza una dichiarazione di nullità del matrimonio, i membri della comunità LGBT e le persone sposate civilmente ma non religiosamente.
Tali esclusioni vanno a toccare punti importanti della morale cattolica, come l’impegno matrimoniale e il significato della sessualità per i discepoli di Cristo. È molto probabile che di questi punti dottrinali si discuterà nei prossimi Sinodi.
Ma l’esclusione di donne e uomini per via della loro situazione matrimoniale, del loro orientamento e/o atti sessuali, è una questione prima di tutto pastorale, non dottrinale. Data la dottrina della Chiesa sulla sessualità e il matrimonio, come dovremmo comportarci, nell’ambito della Chiesa, con le donne e gli uomini risposati o LGBT, in particolare riguardo al problema dell’Eucarestia?
Il documento “Allarga lo spazio della tua tenda” cita la Chiesa Cattolica di Inghilterra e Galles, che offre una traccia per rispondere a questo dilemma pastorale: “Il sogno è quello di una Chiesa che viva più pienamente un paradosso cristologico: proclamare con coraggio il proprio insegnamento autentico e allo stesso tempo offrire una testimonianza di inclusione e accettazione radicale attraverso un accompagnamento pastorale basato sul discernimento” [n. 30].
In altre parole, la Chiesa è chiamata a proclamare il suo insegnamento senza nulla omettere, ma al tempo stesso offrendo una testimonianza di forte inclusione nella sua prassi pastorale.
Mentre il processo sinodale comincia a discernere il problema dell’esclusione dei divorziati e risposati e delle persone LGBT, in particolare per quanto riguarda la partecipazione all’Eucarestia, tre dimensioni della fede cattolica sostengono il cammino verso l’inclusione e l’appartenenza reciproca.
La prima è l’immagine della Chiesa come ospedale da campo, proposta da papa Francesco, dove il primo imperativo pastorale è curare i feriti, da cui scaturisce il potente corollario che siamo tutti feriti. In questo fondamentale riconoscimento della nostra fede troviamo l’imperativo di fare della nostra Chiesa un luogo di accompagnamento e inclusione, amore e misericordia. Gli atti pastorali che hanno come effetto l’esclusione di determinate categorie di persone dalla vita della Chiesa contraddicono il concetto fondamentale secondo cui siamo tutti feriti, e tutti ugualmente bisognosi di cure.
Il secondo elemento della fede cattolica che punta verso l’inclusione è il rispetto per la coscienza individuale. Gli uomini e le donne che si sforzano di essere discepoli di Cristo devono lottare contro molti ostacoli per vivere la loro fede, spesso resistendo contro tremende pressioni e circostanze avverse. Se la dottrina deve avere un ruolo chiave nelle decisioni dei credenti, la coscienza ha il primo posto. Le esclusioni categoriche minano alla base il ruolo della coscienza, proprio perché non possono rendere conto della conversazione interiore tra gli uomini e le donne e il loro Dio.
Il terzo elemento che punta verso l’inclusione e l’appartenenza reciproca è la complessa realtà umana, fatta di dolore e di grazia divina, che costituisce il sottofondo di ogni discussione sull’essere più o meno degni di ricevere l’Eucarestia. Come scrive papa Francesco nella “Gaudete et exsultate”: “La grazia, proprio perché suppone la nostra natura, non ci rende di colpo superuomini […] La grazia agisce storicamente e, ordinariamente, ci prende e ci trasforma in modo progressivo” (n. 50).
Questo è il fondamento dell’esortazione di Francesco “considerare l’Eucarestia non un premio per i perfetti, ma una fonte di guarigione per noi tutti”. L’Eucarestia è un elemento centrale della trasformazione di tutti i battezzati da parte della grazia divina; per questa ragione la Chiesa deve abbracciare una teologia eucaristica che inviti effettivamente tutti i battezzati alla mensa del Signore, invece di una teologia della coerenza eucaristica che moltiplica le barriere che impediscono di accedere alla grazia e al dono dell’Eucarestia. Il non esserne degni non può essere il punto di partenza dell’accompagnamento dei discepoli del Dio di grazia e misericordia.
Qualcuno obietterà che la Chiesa non può accettare un concetto così radicale di inclusione, in quanto l’esclusione dall’Eucarestia dei divorziati e risposati e delle persone LGBT deriva dalla tradizione morale cattolica secondo la quale tutti i peccati sessuali sono peccati gravi. Questo significa che tutti gli atti sessuali compiuti al di fuori del matrimonio sono talmente gravi da costituire oggettivamente un enorme impedimento alla relazione con Dio. Questa obiezione va affrontata direttamente.
Il risultato della tradizione secondo cui tutti gli atti sessuali al di fuori del matrimonio costituiscono oggettivamente peccato grave è che la vita morale cristiana si è concentrata sul sesso in modo sproporzionato.
Il cuore del discepolato cristiano è la relazione con Dio Padre, Figlio e Spirito Santo radicata nella vita, morte e resurrezione di Gesù Cristo. Da questo kerygma fondamentale deriva una gerarchia di verità: gli atti sessuali, per quanto siano importanti, non sono certo il cuore di questa gerarchia, eppure la nostra prassi pastorale li ha posti al centro delle strutture di esclusione dall’Eucarestia, e questo appunto dovrebbe cambiare.
È importante rimarcare che i dialoghi sinodali si sono soffermati sull’esclusione delle persone LGBT, non solo riguardo all’Eucarestia. Molte voci chiedono una loro maggiore inclusione nella vita della Chiesa, e hanno deplorato la vergogna, le offese e l’esclusione in cui molte di loro ancora vivono.
Il fatto che così tanti uomini e donne abbiano un’avversione profonda e viscerale verso le persone LGBT è un mistero demoniaco dell’animo umano. La testimonianza più importante della Chiesa di fronte a questo bigottismo deve essere l’accoglienza incondizionata, non la distanza o la condanna.
La distinzione tra orientamento e atti non può essere il punto di partenza della pastorale, perché essa inevitabilmente divide la comunità LGBT tra chi si astiene dal sesso e chi no, ma il cuore, l’anima, la superficie e la sostanza delle posizioni e dell’azione pastorale della Chiesa deve coincidere piuttosto con la dignità di ogni persona in quanto figlia e figlio di Dio che lotta in questo mondo.
Il rapporto sinodale italiano afferma che “la Chiesa-casa non deve avere porte che si chiudono, ma un perimetro che si allarga continuamente”.
Noi statunitensi dobbiamo cercare di avere una Chiesa le cui porte non si chiudono e il cui perimetro si allarga continuamente se vogliamo coltivare la speranza di attirare verso la Chiesa le generazioni più giovani, e di essere fedeli al Vangelo di Gesù Cristo. Dobbiamo allargare la nostra tenda, e dobbiamo farlo adesso.
* Il cardinale Robert W. McElroy, nominato nel 2010 vescovo ausiliario di San Francisco, nel marzo 2015 è diventato vescovo di San Diego.
Testo originale: Cardinal McElroy on ‘radical inclusion’ for L.G.B.T. people, women and others in the Catholic Church