Le storie bibliche di una Torah in transizione
Testo di Joy Ladin* pubblicato su lgbtqreligiousarchives.org (Stati Uniti). Liberamente tradotto dai volontari del Progetto Gionata.
Per oltre duemila anni, gli ebrei hanno letto la Torah (che si riferisce ai cinque libri di Mosè che fanno parte della Bibbia ebraica, l’Antico Testamento: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio), e ogni volta che arrivano alla fine, ricominciano dall’inizio.
Le parole non cambiano, ma noi sì: torniamo alle stesse pagine più vecchi, più forti, più bisognosi, più saggi o più spaventati di prima. La familiarità del testo è uno specchio della nostra trasformazione.
Ma per molte persone ebree omosessuali, bisessuali e trans, la Torah è uno specchio crudele, che riflette solo la nostra estraneità. Quando si seppe che sarei tornata a insegnare alla Yeshiva University (università ebraica statunitense) dopo la mia transizione da uomo a donna, un mio collega, il rabbino Moshe Tendler, dichiarò al New York Post: “Non esiste alcun angolo della Torah in cui [una persona transessuale] possa nascondersi come donna senza violare gravemente la legge, l’etica e la moralità della Torah”. Secondo lui, l’unica cosa che la Torah aveva da dirmi era che la mia stessa esistenza era una violazione.
Fortunatamente, i miei studenti la pensavano diversamente. Il loro atteggiamento è stato rispettoso, compassionevole, spesso persino lungimirante. La stessa Torah che per Tendler era una conferma della sua transfobia, per loro era un invito a comprendere un aspetto dell’esperienza umana che forse non si erano mai fermati a considerare.
Molti di loro studiano la Torah fin dall’infanzia, e alcuni mi hanno chiesto come la mia transizione abbia cambiato il mio modo di leggerla. Una domanda che, fino a quel momento, non mi ero mai posta. Certo, la transizione ha trasformato ogni aspetto della mia vita, ma il mio rapporto con la Torah?
Ho iniziato a leggerla ogni giorno da giovane uomo con la barba; oggi, da donna di mezza età in divenire, la leggo ancora ogni giorno, seguendo il ciclo settimanale delle parashot. La trovo sempre enigmatica, affascinante, a tratti spaventosa o noiosa. Continuo a essere attratta più dai racconti di famiglie disfunzionali che dalle leggi sui sacrifici.
Fin da bambina – anche se il mondo mi vedeva come un bambino—il personaggio che più mi affascinava era Dio. Mi sembrava che io e Dio avessimo molto in comune. (Naturalmente, mi identificavo anche con Spock di Star Trek e, nei miei sogni più sfrenati, con Barbara Eden in I Dream of Jeannie).
Dio e io eravamo entrambi esseri alieni, incapaci di relazionarci con gli umani, costantemente in bilico tra il desiderio di connessione e l’amarezza di non riuscire mai a essere compresi. Entrambi unici, invisibili, in cerca di un riconoscimento che sembrava sempre sfuggirci.
Ma c’era un versetto nella Torah che mi perseguitava: “Una donna non indosserà abiti da uomo, né un uomo indosserà abiti da donna, poiché chiunque lo fa è abominevole agli occhi del Signore tuo Dio” (Deuteronomio 22:5). Per anni ho provato a ignorarlo, ma era impossibile. Era l’unico punto in cui la Torah sembrava riconoscere la mia esistenza – e lo faceva condannandomi.
Da bambina, nei rari momenti in cui ero sola in casa, salivo in soffitta e indossavo gli abiti smessi di mia sorella minore. Non era un gesto di autoaffermazione: quei vestiti non mi sarebbero mai entrati, e indossarli non faceva che amplificare il mio dolore. Ma sapevo che dovevo farlo. E quel versetto della Torah mi diceva che Dio mi odiava per questo.
Questa interpretazione mi sembrava giusta, ma che possibilità c’erano che un Dio disgustato dal travestitismo si prendesse la briga di analizzare il mio caso particolare? Dio avrebbe prima aborrito, poi fatto domande. Eppure, io continuavo a vestirmi da ragazza. Non potevo farne a meno.
Forse era proprio questa la chiave: gli ebrei affamati possono mangiare cibo non kosher se è l’unico modo per sopravvivere. Io stavo morendo dalla voglia di essere una ragazza e gli abiti femminili erano l’unico nutrimento per la mia anima.
Forse la legge voleva dire: Dio ti detesterà se ti travesti, a meno che tu non ne abbia un disperato bisogno. Dio mi aveva fatto nascere ragazzo, ma con il disperato bisogno di essere una ragazza. Come poteva odiarmi per essere ciò che mi aveva creata per essere?
Sfortunatamente, né Dio né io ci sentivamo a nostro agio con l’idea che il mio desiderio di essere femminile trascendesse la legge della Torah. Il punto non era il mio comportamento, ma la mia essenza. Io ero una persona trans, qualcuno nato per indossare gli abiti del genere opposto. Quel versetto del Deuteronomio non mi allontanava da Dio; mi mostrava che Dio e io avevamo qualcosa in comune: potevamo disprezzarci insieme.
Per alcune persone ebree trans, è qui che il loro rapporto con la Torah si interrompe. Ma io non l’ho mai abbandonata. Qualcosa mi spingeva a continuare a leggere.
In quella scrittura complessa e spesso spaventosa, io percepivo un’eco di verità. Non intendo dire che la Torah mi abbia convinta che il mondo sia stato creato in sei giorni, ma il suo modo enigmatico di raccontare la realtà, la sua resistenza a ridurre la vita, l’umanità e gli eventi a semplici dichiarazioni, mi parlavano profondamente.
Per esempio, quando Mosè chiede a Dio quale sia il suo nome, Dio non risponde con un nome proprio, ma con un’affermazione paradossale:
“Mosè disse a Dio: ‘Ecco, quando andrò dai figli d’Israele e dirò loro: Il Dio dei vostri padri mi ha mandato da voi, mi chiederanno: Qual è il suo nome?’. Cosa dovrò rispondere?”
“Dio rispose a Mosè: ‘Ehyeh asher ehyeh'” (Esodo 3:13-14).
Mi affascinava il fatto che questa espressione potesse essere tradotta in due modi diversi. Ehyeh asher ehyeh può significare Io sono colui che sono, una dichiarazione tautologica che identifica Dio con l’essere puro e immutabile, al di là della realtà umana. Ma può anche significare Io sarò ciò che sarò, un’affermazione dinamica, che presenta Dio come un processo di divenire, un’energia sempre in movimento, che si trasforma e si realizza nel mondo.
La Torah trasformava i paradossi esistenziali che mi avevano portato sull’orlo del suicidio nel fondamento stesso dell’identità e della verità.
La narrazione della Torah riesce a presentare questa verità sfaccettata e contraddittoria perché sopprime la soggettività. Non c’è quasi mai un’attenzione diretta alle emozioni e alle percezioni dei personaggi. La Torah descrive un ampio spettro di sentimenti umani- dalla paura all’amore, dall’ira alla devozione – ma la sua voce rimane sempre distaccata. Racconta l’omicidio di Abele e l’amore di Giacobbe per Rachele con la stessa freddezza.
Questo stile narrativo freddo e distante mi sembrava incredibilmente vero. Prima della mia transizione, vivevo in uno stato di dissociazione costante. Ero così scollegata dalle mie emozioni che non ero nemmeno sicura di averne.
La Torah, con il suo distacco emotivo, mi rispecchiava perfettamente. La mia rigidità emotiva, che rendeva incomprensibili per me le gioie e i dolori dei miei coetanei, mi faceva sentire meno umana. Ma quando leggevo la Torah, la mia dissociazione sembrava qualcosa di nobile: invece di farmi sentire meno umana, mi faceva sentire più vicina a Dio.
Ma con la transizione, tutto è cambiato. I legami tra corpo e mente, necessari per sentire le emozioni, sono diventati sempre più forti. All’inizio, ero sopraffatta: dolore e desiderio, angoscia ed entusiasmo mi travolgevano. “Come fanno le persone a vivere con tutte queste emozioni?” chiesi a un’amica. “Sentono sempre così tanto su tutto?” Per me, fino ad allora, le emozioni erano arrivate singolarmente, da lontano, come messaggeri esausti dopo un lungo viaggio. Ora, invece, ero immersa in esse.
Non vedo più i sentimenti come catastrofi naturali, ma mi sento ancora come un personaggio di un vecchio film in bianco e nero che improvvisamente si ritrova in un mondo a colori. Tutto è più vivido, più intenso. Il mondo brilla di amore e di angoscia, di generosità e di pericolo. E il mio rapporto con la Torah è cambiato di conseguenza.
Quella distanza emotiva che una volta mi faceva sentire a casa ora mi irrita. Dov’è la ricchezza delle emozioni che ora sento così intensamente? Dov’è la paura di Adamo ed Eva, il tormento di Caino e Abele, l’amore di Sara e Abramo?
Ora so che la tradizione rabbinica ha riempito molte di queste lacune con il midrash (racconti interpretativi che arricchiscono la narrazione biblica). Ma ciò che ho capito con la mia transizione è che la vitalità della Torah dipende dall’urgenza emotiva che noi le portiamo.
Se non insistiamo affinché la Torah parli ai nostri bisogni, alle nostre paure, ai nostri desideri, allora essa si riduce a un’antica raccolta di leggi, un reperto archeologico anziché un albero di vita.
E così, anche ora che la mia vita sembra immensamente lontana dalla Torah, continuo a tornarci, chiedendole di parlarmi delle domande più urgenti per me: chi sono? Cosa significa essere umana?
* Joy Ladin è una poetessa e saggista statunitense, nota per essere stata la prima docente apertamente transgender in un’istituzione ebraica ortodossa. Ha pubblicato dodici libri, tra cui l’autobiografia “Through the Door of Life: A Jewish Journey Between Genders” (2012) e “The Soul of the Stranger: Reading God and Torah from a Transgender Perspective” (2018). Le sue opere esplorano temi legati all’identità di genere e alla spiritualità, offrendo una prospettiva unica che unisce esperienza personale e analisi letteraria.
Testo originale: Torah In Transition