L’equivoco dell’accoglienza, un termine che discrimina
Riflessioni inviateci da Massimo Battaglio
In questi giorni, a partire da un bell’articolo di Luciano Moia su L’Avvenire, discutevo con alcuni amici sul termine “accoglienza”. Un termine, a mio parere, molto equivoco, come tutte le parole che vanno troppo di moda. Un vocabolo che, quando si parla del rapporto fede-omosessualità, si tinge di grottesco.
Nel mio percorso battagliero e affettuoso con la Chiesa, non ho mai avuto alcuna voglia di “farmi accogliere” o di “sentirmi accolto”.
Non è per superbia ma perché non sono uno straniero in attesa di jus soli. E non sono arrivato alle porte della Chiesa questa mattina su un barcone. Non ho bisogno di una coperta, una minestra, un posto di lavoro, un voto alle elezioni. Ho già il lavoro mio e godo dei miei diritti civili. Non mi si compra con promesse o minacce nè tantomeno con l’equivoco dell’accoglienza.
Nella Chiesa, ho tutti i titoli di cittadinanza necessari: quelli che derivano dal battesimo, dalla grazia di Dio, dall’ascolto della sua parola e della mia coscienza. E non c’è prete, vescovo o fanatico “anti-gender” che me ne possa privare. Non può farlo nemmeno il papa.
Per dirla in termini evangelici, se io mi dovessi identificare in uno dei personaggi della parabola del Padre misericordioso, non sarei il “figliol prodigo” ma tutt’al più l’altro. Sarei quello che è sempre stato in casa ma ha l’impressione che nessuno si sia mai accorto di lui. Con l’aggravante che, nel mio caso, non è una mia impressione ma un dato oggettivo.
Ho la sensazione che il termine “accoglienza” abbia solo sostituito l’antipatico “tolleranza” ma ne abbia ereditato tutto il significato. C’è sempre uno che accoglie e uno che viene accolto; uno che bussa e l’altro che si arroga il potere di aprire o chiudere alle proprie condizioni.
Ciò che io pretendo dalla Chiesa – e pretendo proprio, senza tanto chiedere – è di essere riconosciuto e poi ascoltato. Voglio che si ammetta che il rapporto che c’è tra noi e i nostri fidanzati e mariti è un rapporto d’amore. Desidero che si capisca che le nostre unioni sono fondate su un impegno reciproco e fecondo. Esigo che non ci si accusi di stramberie come “vogliono sposarsi per la reversibilità” (Certo, a trent’anni!) o “per sfogare esigenze ormonali” (Come se ci fosse bisogno di sposarsi per saltare la cavallina. Che, detto dai preti …). Reclamo che si ceda alla realtà, alla scienza, alla verità delle persone, e che si ammetta di aver sbagliato.
Essere “accolto” come penitente e condotto a una “castità” artificiale (salvo poi vivere esattamente come prima ma di nascosto), non mi interessa. Non ho bisogno di farmi rovinare. Si rovinino tra di loro.
A dirla tutta, è proprio il sentirmi accolto, coccolato, che non mi entusiasma granché. Trovo patetici i sorrisi di chi, dichiarandosi accogliente, mi guarda come se dicesse: “ti abbiamo maltrattato fino a ieri ma adesso ti concediamo di sederti alla nostra tavola”. Caro amico – gli risponderei – il tuo discorso deve fermarsi alla prima parte: “ti abbiamo maltrattato”, cui deve seguire: “perdonaci, se non ti è troppo grave”.
Ho l’impressione che le anime nuove della Chiesa accogliente siano fuori tempo. Perchè i gay, nel mentre, hanno infatti imparato a vivere benissimo senza le carezze della Chiesa. E il loro non è materialismo o perversione. E’ che uno, a un certo punto, deve pur farsene una ragione, se vuole sopravvivere. Le persone omosessuali si sono fatte, gioco forza, portatrici di una spiritualità non ecclesiale, che si ferma a livello intimo e, per ovvie ragioni, non va oltre. Oppure, hanno allontanato Dio. Il quale, rispettoso debole amante, si è lasciato allontanare.
Il problema della Chiesa, oggi, non è di accogliere ma farsi accogliere; superare l’equivoco e permettere l’incarnarsi del Vangelo nonostante se stessa.