L’eredità di Anna Freud. Tre donne, una casa e le parole non dette
Dialogo di Katya Parente con la scrittrice Roberta Calandra
Tre donne, riunite quasi per caso in una grande casa londinese, le complesse dinamiche che si instaurano tra loro, il racconto di una personalità incredibile che, al di là dell’ingombrante padre, ha saputo lasciare la sua impronta nella storia della psicologia infantile: questo e molto altro è il libro di Roberta Calandra “L’eredità di Anna Freud”. Roberta ci regala ancora la sua compagnia, gli assidui lettori della mia rubrica si ricorderanno un’altra bella intervista nella quale presentava “Otto” e di cui invito alla (ri)lettura. Ma ora, occupiamoci di Anna…
Perché scrivere degli ultimi giorni di una donna così importante per il XX secolo?
Per il teatro ho realizzato un monologo, grazie a Stefania Barca, dove narro la sua esistenza in modo fedele; il romanzo reinventa secondo un espediente letterario, se pensa a “The hours” oppure a “La donna del tenente francese”, la commistione tra passato (nel primo caso) reale e presente immaginato, spesso il fascino che se ne trae è forte, almeno lo è per me.
In questo caso mi rendo conto di aver creato una operazione altamente irriverente, ma al fondo c’era il desiderio di reinventare la trasmissione di una eredità al femminile. Non c’è mai pretesa di verità storica, se non nei racconti che Anna fa della sua vita. Potrebbe essere tutto un delirio onirico prima della morte, l’idea era di regalarle un omaggio insolito e forte, come la sua vita è stata.
Il libro è, ovviamente, fiction. Non è difficile mescolare realtà e fantasia?
In realtà non tanto, lo faccio spesso nei miei lavori: a teatro ho avuto a che fare con la Garbo, Keats, Maria Maddalena, Olympia de Gouges e tanti altri, e ho sempre la sensazione di essere chiamata a restituire qualcosa di particolare del loro passaggio, vedo lo scrittore come una specie di ricetrasmittente. Ciò che conta è il massimo rispetto per la materia scelta, e mi rendo conto, dicendo questo, che parlo di selezioni soggettive.
Gli stralci dei quaderni di Anna riportati nel tuo libro sono autentici?
In parte sono dedotti dai tanti libri che ho letto sul suo lavoro, in questo caso in particolare su quello svolto accanto a Dorothy [Burlingham, la compagna di Anna, n.d.a.], anche qui parzialmente riadattati alla trama emozionale del triangolo delle protagoniste.
Due delle protagoniste del romanzo, alla fine, si troveranno, quasi a loro insaputa, più consapevoli e più forti. Potremmo definire questa tua opera un doppio Bildungsroman, con Anna Freud a fare da nume tutelare?
Mi dici una cosa molto bella, ci sono due princìpi base che vorrei restassero da questo libro: nessuno è mai troppo patologico per imparare ad amare ed essere amato, e che in questo processo, impervio ma possibile, conta molto l’essere visti, compresi e sostenuti da almeno uno sguardo esterno compassionevole. Alice Miller lo definisce “testimone soccorrevole”, e può fare la differenza tra un serial killer e un artista riconosciuto.
E, dopo Anna, cosa ti aspetta?
Sto maltrattando con cura analoga, ma in forma differente (in termini di riecheggiamento in salsa pop) il povero Proust, a breve racconterò qualcosa in più. Poi, una sequenza di dispiaceri personali, uniti a un seminario di Antonio Bilo Cannella, mi hanno come “stappata” e costretta a scrivere poesie: incredibilmente stanno trovando apprezzamento e casa in tempi record, devo dire che non me lo aspettavo.
In attesa di leggere dell’autore di “Alla ricerca del tempo perduto” in una prospettiva nuova e sicuramente interessante, e aspettando la sua produzione poetica, auguriamo a Roberta buon lavoro.