Lesbica e credente. Scoprirsi amata e chiamata alla costruzione del Regno
Testimonianza di M.*, 45 anni, pubblicata sul sito cattolico Réflexion e partage (Francia), libera traduzione di Marco Galvagno
Sono stata cresciuta (da mia madre e da mia nonna, mio padre non era credente) nella fede, le cui principali caratteristiche erano il senso di condivisione, d accoglienza, la preghiera semplice e la fedeltà al Signore, nonostante le prove della vita. Da adulta ho potuto fare mia la relazione con Cristo e condividere con altri cristiani diversi scambi, percorsi di formazione ed impegni nel campo del volontariato e della solidarietà.
La mia vita professionale è basata sul valore primordiale della persona umana e sulla necessità di giustizia sociale e la esercito nell’accompagnamento delle persone fragili o prive di mezzi di sostentamento o in situazione a rischio di marginalità ed esclusione sociale. Inoltre sono estremamente sensibile e mi mobilito nei confronti di ogni forma di violenza (fisiche, psicologiche, culturali, economiche) inflitte da parte di esseri umani su altri specialmente donne e ragazze che sono le prime vittime. In seno alla chiesa cattolica invito ad essere attenti e vigili su queste tematiche.
La mia famiglia ha attraversato molte prove. Da molto tempo e in svariati modi ho dovuto sostenere gli uni e gli altri, farmi carico di situazioni gravi sia urgenti che a lungo termine: mia sorella e mia nipote con i loro percorsi di vita caotici, mia madre ammalata che ho accompagnato fino alla morte, avvenuta l’estate scorsa, tra l’altro la mia compagna con cui condivido la vita da molti anni, mi ha aiutato a tenere duro. La sua presenza nella mia vita quotidiana dà senso, equilibrio e pace alla mia esistenza.
Come donna omosessuale non mi sono mai sentita davvero accolta dalla chiesa né dalla società civile. Tutta una parte del mio essere rimaneva nascosta, clandestina, trovavo tutto questo increscioso e doloroso, ma mi ci adattavo. Tuttavia in occasione del dibattito sul pacs ho letto, ascoltato le dichiarazioni dei rappresentanti della chiesa e delle chiese, quelle parole pubblicate, non solo mi hanno ferito profondamente, ma le ho vissute come parole omicide. Là nel momento in cui bisognava aiutare a vivere, rompere i ghetti, dissipare le paure e i rifiuti, invitare le persone al dialogo e alla fraternità effettiva si esprimeva l’opposto.
Non potevo restare li dove le persone omosessuali venivano viste ed etichettate in un certo modo, li dove non potevano davvero prender parte alla mensa famigliare.
Sentire che si è incapaci di accettare l’altro, mentre si sono passati anni a lottare perché le persone vengano accettate con le loro diversità di qualsiasi tipo esse siano. Mentre le nostre relazioni di amicizia, famigliari professionali o amorose sono una costante esigenza di accettazione dell’altro nella sua singolarità e nella sua libertà.
Sentire che non ci può essere amore fecondo nell’omosessualità, mentre abbiamo investito tutto il nostro cuore e le nostre forze per aiutare gli altri a vivere meglio, a riprendere la speranza, ad accompagnare giorno per giorno persone che soffrono, a cercare di esserci e prenderci cura delle persone che attraversano il nostro cammino. Sentire che Dio e la chiesa amano, benedicono, incoraggiano le famiglie, senza mai ricevere, per noi che non possiamo rientrare in questo modello, una parola di vera accoglienza e il riconoscimento delle cose buone che portiamo in noi. Non sentirci mai dire che siamo amati dal Padre e che siamo chiamati a costruire il Regno così come siamo.
Se ho potuto negli ultimi tempi ritrovare un po’ di speranza è grazie alle persone, omosessuali e non, che frequentano gruppi come Eglise en dialogue 44. Hanno saputo farsi veramente prossimo e predicare una parola diversa da quella della chiesa ufficiale, mostrandosi, ognuno a modo suo, dei veri fratelli.
.
* Testimonianza scritta in occasione del giubileo del 2000
.
Testo originale: Aimés et appelés à bâtir le Royaume