Lesbofobia. Quando l’odio e la discriminazione sono al quadrato
Riflessioni di Massimo Battaglio
Sta facendo il giro del web la notizia di un’aggressione, avvenuta ad Alessandria il 6 maggio 2022, ai danni di Claudia Cerrorello, donna lesbica di 53 anni. Il vicino di casa, dopo anni di insulti e dispetti, ha deciso di passare alle mani. Ha aspettato Claudia sulle scale, l’ha spinta facendola rotolare, poi si è avvicinato e, invece di soccorrerla, l’ha riempita di botte. Quando si dice un vero cavaliere! E’ il classico caso di omofobia al femminile, non diversa da tanti altri episodi omofobi. A uno sguardo disattento, non viene da pensare alla categoria della “lesbofobia”.
Ma il caso di Claudia è piuttosto raro nel suo genere. Avendo registrato ormai 247 vittime di omofobia di sesso femminile, è possibile notare alcune ricorrenze che differenziano molto le loro disavventure da quelle subite da maschi e da trans m>f.
Abbiamo già notato altre volte che le donne cisgender denunciano molto meno rispetto ai maschi: dal 2013 a oggi sono appunto 247 contro 1015. Seguono le donne transgender (159) e infine i trans di genere maschile (20 in nove anni). Abbiamo già espresso forti perplessità su questo dato: ci sembra impossibile che, in un Paese in cui il 51,3% della popolazione è composto da donne, le vittime di omofobia di sesso femminile siano solo il 28%, delle quali poco più della metà cisgender.
C’è sicuramente qualcosa di nascosto. C’è probabilmente, da parte delle donne, un’atavica resistenza a denunciare, un’attitudine a sopportare nel silenzio almeno finché è possibile nascondere. E forse c’è anche la difficoltà di distinguere un torto subito perché lesbica da uno ricevuto in quanto donna. Ma c’è sicuramente anche dell’altro, che scopriremo guardando i casi uno per uno.
Osserviamo i dati delle aggressioni fisiche, distinguendo quelle a persone singole da quelle ai danni di coppie o gruppi. Nella prima fattispecie, le donne cisgender arrivano solo al 7%. Nella seconda, superano il 19%.
Diamo ora un’occhiata sommaria alle aggressioni della seconda specie. In 34 casi su 56, si tratta di coppie di fidanzate o percepite come tali. In alcuni casi, le aggressioni avvengono nel condominio in cui le vittime abitano. Altre volte, il teatro della violenza è la strada e il segno di riconoscimento è un bacio o sono le mani che si stringono passeggiando.
Negli episodi a carico di donne singole, l’elemento detonatore è stato di diverso tipo. In sei casi si è trattato una borsa rainbow portata dalla vittima. In altri – numerosi – è stato un volantino che la vittima distribuiva.
Insomma: sembra che l’omofobo, per individuare una donna lesbica, abbia bisogno di un segno di riconoscimento: la fidanzata di lei, un oggetto. Non basta un capo di abbigliamento (come è invece tipico per le vittime gay). Sembra che l’omofobo, nel suo esasperato maschilismo, non possa credere che una donna appartenga a una categoria che sfugge alle sue abilità predatorie. Ed è questo che lo tormenta: dover ammettere che alcune donne non potranno mai cadere nel suo sacco.
In questo, è corretto distinguere l’omofobia in senso generale,dalla “lesbofobia” perchè il movente è un po’ diverso. Il maschio omofobo che colpisce una donna omosessuale non intende solo punire la sua “devianza”, il suo allontanarsi dallo stereotipo sociale atteso per le persone del suo genere. Il maschio omofobo vuole anche ribellarsi all’idea che possano esistere donne fuori mercato.
A conforto di questa ipotesi, basta ricordare i diversi casi in cui la vittima si è sentita dire frasi come: “vieni con me, che ti faccio cambiare idea”.
Un caso del genere finito nel peggiore dei modi fu l’omicidio di Elisa Pomarelli, Carpeneto Piacentino, 25/08/2019. Il suo assassino era qualcosa di più di un “caro amico” ma non un vero e proprio pretendente. Decise di eliminarla perché non sopportava l’idea che non potesse diventare la sua fidanzata.
Non abbiamo mai riscontrato casi analoghi a parti inverse, cioè crimini effettuati da donne nei confronti di maschi gay per motivi analoghi. Ed è per questo, e non per amore di tassonomia, che dobbiamo abituarci a usare anche il termine specifico di “lesbofobia”.