Linguaggi: per unire, per dividere, per carità!
Riflessioni di Massimo Battaglio
“Sorridere mai, è troppo cringe. Piuttosto meglio spawnare qualche bling mentre stai killando male uno skibidi toilet. Fare mewing non ti ha reso più sigma, piuttosto ti ha lasciato nabbo. Se la vita lagga o glitcha, tu tryharda sempre che prima o poi va bene. Oggi compi undici anni e oggettivamente parli come un cretino. Ma hai anche detto: forse è ora che inizi a imparare dai miei errori”. Questo è il post che un papà (finalmente un termine vero) dedica al figlio nel giorno del suo compleanno. Linguaggi a confronto.
Sto scorrendo la home di facebook (e ci risiamo). Il post immediatamente successivo riguarda temi che a noi dovrebbero essere teoricamente più familiari. Parla una “teologa progressista” (o meglio appassionata di teologia) che dichiara quanto segua: “La creatio continua, che coinvolge il cosmo intero, avviene in un campo trinitario di impronta pen-en-teista in cui Dio è in tutte le cose e tutto è in Dio. Tutto avviene nell’infinita unità del tutto”. Chiaro, no? Di chiaro, qui c’è solo il motivo della rimonta del tradizionalismo.
Passiamo ad altri linguaggi di gruppi a noi prossimi. Per esempio, un articolo comparso su gay.it presenta alcune novità librarie di settore: “Alla vigilia del mese della visibilità bisessuale, vi segnaliamo dieci romanzi con personaggə bisessuali ben rappresentatə”.
Un commentatore si arrabbia per l’uso dello schwa: “Ma che senso ha scrivere il sostantivo maschile personaggio al plurale con lo schwa?? È maschile il genere GRAMMATICALE del sostantivo non quello sessuale. Può essere un personaggio maschile o femminile o trans, resta NON discriminatorio. Quando la smettiamo con questa cosa inutile? O volete far diventare maschile anche la spia se è un uomo?”. A naso, intuisco il senso del commento e credo di poterlo anche condividere. Ciò che mi lascia sempre più interdetto è la perdita di tempo e di energie intellettuali e politiche che questi battibecchi interni generano. Ok: i linguaggi definiscono le cose e, senza definizioni, le cose non esistono. Ma i linguaggi servono anche per comunicare, anzi, per creare comunione. Se non la creano, non è meglio passare oltre?
Noi cristiani LGBT+ siamo esenti da questo fenomeno di creazione di linguaggi interni, che servono più per riconoscerci tra di noi che per creare legami con gli altri? Vediamo. Spulcerò un po’ di materiale scritto da noi e dai nostri amici, iniziando da una frase-slogan di Luigi Testa, l’autore della bella e ormai famosa “Via Crucis di un Ragazzo Gay”. Ecco: “Tutti i passi che ho fatto nella mia vita mi hanno portato qui, ora. Mi è venuto in mente questo, mentre aspettavo insieme agli altri che il Papa arrivasse nell’aula dell’udienza”.
Passi, vita, portato, qui e ora, aspettavo, Papa, aula, udienza. In una frase di trentatrè termini, Luigi ne inserisce nove (un terzo) fortemente “tecnici”, comprensibili fino in fondo solo nel gruppo degli amici e affini ma sicuramente meno pregnanti per il pubblico più anonimo. Per chi è abituato alle omelie o alle riflessioni spirituali, quelle parole hanno un senso che va molto oltre il significato grammaticale. Vanno dritto al cuore; suscitano sentimenti remoti. Ma per chi ha altre abitudini?
Se pensiamo ai nostri comunicati, ai nostri incontri, ai loro titoli, ai messaggi che ci mandiamo e agli articoli che scriviamo, dobbiamo ammettere che anche noi finiamo un po’ per assomigliare al ragazzo undicenne con cui ho aperto questa riflessione. Siamo sinceri: quante volte abbiamo ripetuto frasi come: “occorre riflettere su quale pastorale per le persone LGBT+, i loro genitori e accompagnatori pastorali”. Pensiamo forse che qualcuno capisca qualcosa? Già ci va da fare a mettere in fila i temini nell’ordine giusto. Prendere uno scivolone e dire che “occorre riflettere su quali accompagnatori dei genitori LGBT+ delle persone pastorali”, è un attimo. In realtà abbiamo fatto solo un’esercizio identitario interno: abbiamo dimostrato di saper maneggiare i linguaggi del gruppo, di saperne vestire la divisa linguistica.
Il cammino, il percorso, la testimonianza, la crescita, l’incontro, la condivisione, il superamento, l’attualizzazione, il rinnovamento, la tradizione, le radici, la pastorale sono tutti termini di un vero e proprio codice “cattolico progressista” e che infatti noi usiamo a iosa, tanto e forse più di quanto altre formazioni usino lessici che in noi creano fastidio (“lotta” per dire “discussione”, “lavorare” per “fare delle cose”, “le realtà” per indicare “dei gruppi”). Non sarebbe il caso di sforzarsi di elaborare un linguaggio comune, fatto di termini che magari non ci fanno sentire tanto uniti tra noi ma puntano a unirci col mondo?