L’isola dei femminielli. Storie di omosessuali al confino
Dialogo di Katya Parente con Aldo Simeone
Quando mi sono imbattuta in questo libro me ne è venuto subito in mente un altro, scoperto grazie al corso della professoressa Maya De Leo: “Il nemico dell’uomo nuovo. L’omosessualità nell’esperimento totalitario fascista” di Lorenzo Benadusi (Feltrinelli, 2005). Ma, se quello era un saggio, il libro di cui ci occupiamo oggi “L’isola dei femminielli” (Fazi editore, 2024) è un’opera di narrativa, per sua propria natura quindi sicuramente meno “fredda” ed emotivamente più coinvolgente. Diamo dunque il benvenuto all’autore del libro, Aldo Simeone.
Ci racconti, per quei pochi che non lo sapessero, chi sono i femminielli?
“Femminiello” è, in napoletano, l’omosessuale. Anzi: l’omosessuale effemminato e travestito. Spesso, addirittura, s’intende l’omosessuale travestito che si dà alla prostituzione. È un termine dispregiativo. Perché, nella mentalità maschilista e patriarcale, “femminiello”, “arruso” (in siciliano), “pederasta” non è ogni omosessuale: è solo il gay passivo. Gli “attivi” sono considerati “maschi”, e per questo tollerati con biasimo indulgente. Al contrario, i femminielli appaiono contro natura: o viziosi o malati.
Gli stessi moralisti di metà Novecento non sapevano decidersi tra le due accuse: se considerare l’omosessualità una condotta dissoluta, o un male fisiologico e addirittura contagioso. In ogni caso, per il fascismo la pederastia doveva essere repressa. Così, negli anni Trenta, la dittatura ormai divenuta totalitarismo concepì un luogo di confino in cui segregare i pederasti. Fu l’isola di San Domino, nell’arcipelago delle Tremiti, che per questo venne chiamata “l’isola dei femminielli”.
Come mai hai chiamato come te il personaggio principale del libro?
In effetti è una coincidenza significativa. Anche perché si tratta dell’unico nome non anagrafico presente nel romanzo. “Aldo” è uno dei pochi testimoni che Goretti e Giartosio, autori del saggio “La città e l’isola”, riescono a rintracciare e intervistare settant’anni dopo i fatti di San Domino. Sono loro a chiamarlo così, per tutelare la sua identità. Ebbene: si tratta del solo confinato toscano presente sull’isola.
E proprio di una voce come la sua avevo bisogno per raccontare questa storia: una lingua che potessi sentire mia, anche nelle espressioni idiomatiche e vernacolari; una testimonianza completa e in prospettiva, dato che Aldo è fra i pochi sopravvissuti e per altro non rinnega il proprio passato, da cui però prende le distanze (la sua prima affermazione è: “io non ero buco”, cioè “omosessuale”). Il fatto che il suo nome – benché d’invenzione – sia anche il mio me lo ha fatto sentire ancora più vicino, mi ha permesso di identificarmi nel vero senso della parola. Si aggiunga il fatto che la versione originaria di questo romanzo era in prima persona. Avevo bisogno di abbattere ogni distanza prudenziale, di concedermi a una totale compromissione.
Come ti sei documentato?
La fonte prima e fondamentale per ricostruire la vicenda l’ho già menzionata: è il saggio di Goretti e Giartosio “La città e l’isola”, edito da Donzelli nel 2006 e recentemente ristampato. Ne ho avuto notizia leggendo, nel dicembre 2013, un articolo su «Focus storia». Di bibliografia in bibliografia, ho potuto quindi recuperare e leggere tutto quanto (almeno credo) edito sul confino omosessuale durante il ventennio fascista. La lista in verità è tristemente corta. Poco, troppo poco, su un argomento tutt’altro che marginale della nostra storia nazionale.
Ma l’aiuto più prezioso nella ricerca mi è arrivato – ancora una volta – da un incontro fortuito: quello con la fotografa Luana Rigolli, che proprio mentre io mi accingevo a concepire il romanzo stava completando il suo reportage fotografico “L’isola degli arrusi”. È un lavoro straordinario, che riporta alla luce i volti dei confinati siciliani, le loro schede segnaletiche, i luoghi di provenienza e di confinamento, i verbali, il regolamento… Mi ha reso possibile non solo immaginare i personaggi, ma conoscerli davvero.
L’adagio “la libertà è uno stato d’animo” sembra guidare la comunità dell’isola. Secondo te le persone LGBTQ+ sono ancora ghettizzate, anche se in maniera diversa?
Senza ombra di dubbio. In varie parti del mondo non sono solo ghettizzate, ma anche segregate, costrette all’invisibilità o alla negazione di sé, umiliate, incarcerate e addirittura uccise. Ma anche dove vige – da quasi ottant’anni – la tutela dei diritti umani universali, si continuano a praticare forme di discriminazione in base all’orientamento sessuale. In Italia, le persone LGBTQ+ sono ancora escluse da alcuni diritti basilari, per esempio avere una famiglia, adottare dei figli. Non solo: ogni volta che si perpetuano stereotipi di genere (anche quelli che possono sembrare i più innocenti), si alimenta il falso mito di una mascolinità e una femminilità unici e monolitici.
Per non parlare delle discriminazioni più esplicite: genitori che non accettano i figli gay; coetanei che ironizzano, insultano, bullizzano; personaggi di rilevanza pubblica che rispolverano anacronistici schemi patriarcali. La stessa vergogna di sé, che purtroppo ancora molte persone LGBTQ+ provano, è la testimonianza di una ghettizzazione ancora radicata nella mentalità, nei linguaggi, nei costumi. Infine, non dimentichiamoci: la libertà non è solo uno stato d’animo, è anche e soprattutto una condizione che bisogna garantire agli altri e che gli altri devono garantire a noi: un impegno di tutti a disimpegnarsi (concetto ancora oggi tanto difficile e frainteso), a fissare un limite da non valicare, a concedere spazio.
Questa non è la tua prima prova letteraria…
Ho esordito nel 2019 con “Per chi è la notte”, un romanzo piuttosto diverso da “L’isola dei femminielli”. Vi ho sviluppato altri temi e motivi che mi sono molto cari e su cui senz’altro tornerò: in particolare, una dimensione di ambiguità tra il fantastico e il reale. Ma ci sono anche – come è inevitabile – vari punti di contatto. Per esempio, la presenza della Storia (con la maiuscola), che entra a gamba tesa nella storia (con la minuscola). Il rapporto tra la vicenda individuale e l’esperienza collettiva non riesco a concepirlo come armonico, ma sempre conflittuale. Un’aggressione. L’”esterno” che irrompe nella sfera privata e la viola: costringe i personaggi a prendere posizione, agire. E con questo torniamo al tema della libertà…
A cosa stai lavorando adesso?
“L’isola dei femminielli” in verità non è il mio secondo romanzo. Ne ho scritto un altro prima, che ho deciso di congelare perché non ero convinto dell’opportunità di presentarlo dopo “Per chi è la notte”. Ma non voglio tenerlo chiuso in un cassetto. Ho in mente di tornarci sopra e pubblicarlo. Forse, come terza opera può funzionare. Del resto, la seconda prova è sempre la più difficile, perché si confronta con un’aspettativa: la conferma o la smentisce. Il rischio, nel mio caso, era di presentarmi come uno scrittore “per ragazzi”.
Niente di male, se fosse così. Ma “Per chi è la notte” non è un libro per ragazzi, né tanto meno il secondo romanzo, sebbene entrambi insistano sul crinale tra la narrativa di genere e il suo superamento. Addirittura, la sua sconfessione. Mi piace questo gioco di forme che si rompono, di innesti, di ibridazioni, perché permette di lavorare sulle aspettative del lettore. Nel prossimo futuro, ho in mente di farlo su un genere tra i più codificati in assoluto: il giallo. Un abbozzo di storia mi solletica da tempo. Soprattutto, alcuni personaggi. Li vedo, li sento: chiedono parola.
Come, del resto, fanno i protagonisti di ogni storia – quando gli si dà voce, poi parlano per conto loro, prendono per mano l’autore e lo conducono dove vogliono.
Attendiamo la prossima prova letteraria di Aldo, entrando nei panni e nella vita del suo omonimo confinato su una piccola isola per un “peccato” che mai dovrebbe essere ritenuto tale: il coraggio di essere se stessi.